Il porto di Neapolis ed i suoi relitti

Dai massimi esperti, un resoconto dettagliato della parte più antica di Napoli

 

Download
Il_porto_di_Neapolis_e_i_suoi_relitti.pd
Documento Adobe Acrobat 5.8 MB

 

Napoli L'Illustre

 

Non so chi sia questo Andrea Metrà. Certo, alla sua epoca, doveva essere un nome conosciuto. Si interessava della situazione economica dei vari stati della Penisola, oltre ad interessarsi degli Stati Europei. Siamo nel 1793. Ecco, tra l'altro, cosa scrive di Napoli. Se poi volete approfondire, dovete assolutamente leggere il pdf postato.

" Napoli è la Città più grande e più popolata di tutta l'ltalia, e viene denominata la Nobile". " La Popolazione si fa ascendere a circa 6oo,ooo Anime. Le Porte della Città non si chiudono, e perciò vi si può entrare ed uscirne ad ogni ora. L'Abbondanza delle Vettovaglie è tale, che non vi è Città che ne abbia le Piazze in ogni ora del giorno così provvedute". "Oltre alli moltissimi Prodotti del suo Territorio, contribuiscono assaissimo a rendere

vie più doviziosa questa Capitale le sue Fabbriche e Manifatture, poichè ve ne sono, di

1 anni di ogni sorte, di Stofle leggiere di lana, di Stoffe, Calzette, Fazzoletti, e Fettuccie di

seta; di Velluti lisci, di Musseline, di Bazins, che sono certe Stoffe di seta e cotone; di Co

perte di cotone e di lana, di Tele di lino e di canapa, di Corde da Violino, di Carta,

di Sapone molto ricercato, di Cremor di Tartaro, di Aceto, di Maccaroni, Vermicelli,

e di diverse altre Paste, le di cui qualità ed il sapore non possono essere imitati negli al

tri Paesi di Europa, e di cui se ne fa un lucroso Commercio: vi si fabbricano ancora dell'

Essenze, Acque odorifere e Profumi, molt Acquavite,

della Seta da cucire di ogni qualità ".

Non vi sembra strano che, appena 60 anni prima della strana Unità, la città fosse tanto celebrata in un Trattato dei Commerci? Abbiamo perso (molto).

 

 

 

Naples The Illustrious

 

I don't know who this Andrea Metrà is. Of course, in his time, it had to be a known name. He was interested in the economic situation of the various states of the Peninsula, as well as being interested in the European states. We are in 1793. Here, among other things, what you write about Naples. If you want to learn more,

you should definitely read the posted pdf.

"Naples is the largest and most populated city in all of Italy, and

it is called the Noble "." The Population is ascended to about

6oo, ooo Anime. The city gates do not close, and therefore you can enter and exit.

at every hour. The abundance of supplies is such that there is no city

have the Squares at any time of the day so provided "." In addition to the many Products of its Territory, they contribute very much to making

its factories and factories, as there are, are more abundant

1 year of every fate, of light wool Stofle, of Fabrics, Socks, Handkerchiefs, and Fettuccie of

silk; of smooth velvets, of Musseline, of Bazins, which are certain fabrics of silk and cotton; I say

pearls of cotton and wool, of linen and hemp cloths, of violin strings, of paper,

of highly sought after Soap, of Cremor of Tartar, of Vinegar, of Maccaroni, Vermicelli,

and several other pastes, whose quality and flavor cannot be imitated in the al

tri Countries of Europe, and of which a lucrative Trade is made of it:

Essences, odoriferous waters and perfumes, many brandies,

silk to be sewn on every sidelity ".

Doesn't it seem strange to you that, just 60 years before the strange Unity, the city was so celebrated in a Trade Treaty? We have lost (a lot).

 

 

Vi posto l'intera serie, digitalizzata da Google Book. Per provarvi che, al pari delle altre Potenze Europee del tempo,

si fa riferimento a Napoli per qualsiasi cosa.

 


 

I misteri di Santa Maria la Nova

 

La Chiesa di Santa Maria la Nova è detta la Nova per distinguerla da quella di Santa Maria ad Palatium, risalente al periodo svevo, che sorgeva nel luogo dove fu poi edificato il Castel Nuovo e dove esisteva, fin dal 1216, un convento di frati minori che si voleva fondato da San Francesco. Carlo I d’Angiò, volendo edificare Castel Nuovo, demolì il complesso cedendo in cambio ai frati, il 10 maggio 1279, il luogo ove si trova l’attuale chiesa e sul quale sorgeva, a guardia del porto, l’antica torre Maestra. Sulle antiche strutture fu edificato il convento e memoria della primitiva sistemazione sono l’aspetto quasi di cinta muraria che il complesso assume sulla via del Cerriglio con il campanile eretto dove probabilmente era la torre, e con un prospetto percosso da un fregio a toro, aperto solo da poche altissime finestre ed ornato da una semplice statua di S. Antonio da Padova. Santa Maria la Nova sorse in stile gotico, ma non si conosce l’artefice della sua costruzione.

 

L’aspetto originario conta poco più di tre secoli di vita. Tra le ragioni determinanti l’abbattimento della chiesa angioina vanno menzionati il terremoto del 1456 e quelli del 1538, 1561, 1569 e 1588 ma, ancor di più, l’esplosione della polveriera di Castel S. Elmo, colpita da un fulmine il 13 dicembre 1587, che la danneggiò seriamente. Il restauro della chiesa nel 1596, riconducibile in parte ad Agnolo Franco, si deve anche alle cospicue offerte dei fedeli seguite, inoltre, da una guarigione miracolosa a favore di un povero storpio dalla nascita, attribuita alla Madonna delle Grazie il 17 agosto 1596.

Il Complesso Monumentale comprende due chiostri di cui quello più piccolo, ospitante alcuni monumenti sepolcrali provenienti dalla chiesa, è affrescato con episodi della vita di S. Giacomo della Marca, attribuiti tradizionalmente a Simone Papa. Dal lato del chiostro piccolo si accede agli ambienti della Sagrestia riccamente decorata e dell’Antico Refettorio, abbellito da un affresco del Bramantino: La salita al Calvario.

 

Prosegue su: http://terredicampania.it/reportage-in-campania/santamarialanova-confessionale-delitto-napoli/30/12/2019/


 

Roberto De Simone: l'ultimo studioso

 

Napoli nel secolo XVIII: una famosa capitale europea, una promessa non mantenuta, una speranza delusa, un’avventura culturale conclusasi con un canto sospeso, vagamente conosciuto attraverso una memoria confusa e lacerata. Insomma, un interminabile e immobile giovedí santo, in attesa di una domenica di risurrezione, destinata a rimanere sempre attesa. Da un «giovedí santo» cosí vissuto prende avvio questo testo teatrale di Roberto De Simone, in un labirintico gioco rappresentativo di frammenti storici, di elementi mitici, ritualistici e tradizionali, di segmenti del nostro tempo, drammatici corpi di antica dolenza, di rimandi all’attuale vivere senza memoria, che trova riscontro anche nella realtà napoletana. I diversi linguaggi – da un italiano baroccheggiante al dialetto sia popolare sia letterario – sottolineano caratteristiche e ambiguità dei personaggi, che spesso hanno una doppia commotazione. Si travestono, si trasformano, come nel teatro classico. E l’opera diviene la messa in scena dei conflitti eterni che agitano la Storia e gli uomini.

 


 

Santa Maria della Colonna: il primo conservatorio a Napoli

 

Il complesso monumentale di Santa Maria della Colonna ha riaperto in questi giorni dopo un lungo restauro. Il complesso si trova in via dei Tribunali a Napoli, in piazza Gerolomini, e comprende la Chiesa ed il Chiostro monumentale. Un bellissimo complesso restituito alla città, ed al mondo intero, grazie ai lavori del “Grande progetto Unesco” per il centro storico di Napoli

La chiesa di Santa Maria della Colonna, con la sua bella facciata barocca, fa parte del complesso voluto dal cardinale Mario Carafa nel 1566 per 50 giovani poveri, un orfanatrofio per avviare i giovani alle ‘lettere ed alla musica’.

Il conservatorio prese il nome di Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo e li si formò il grande Giovan Battista Pergolesi ma vi insegnarono anche Alessandro Scarlatti, Francesco Durante, Nicola Porpora e tanti altri. Il complesso subì nei secoli diversi restauri e il principale, voluto dal Cardinale Francesco Pignatelli nel 1715, coinvolse anche la facciata della chiesa rifatta da  Antonio Guidetti anche perché il complesso, nel frattempo, era diventato uno dei principali conservatori di Napoli.

L’interno della chiesa è a pianta rettagolare con croce greca e cupola, e l’impianto ornamentale fu realizzato dallo stuccatore Costantino D’Adamo mentre il coro presenta decorazioni dell’intagliatore Domenico Bertone. Al suo interno ci sono opere di Paolo De Matteis.

Originale anche il chiostro di Santa Maria della Colonna a pianta quadrata circondata da pilastri che ospitò prima un orfanotrofio e poi il conservatorio di musica fino al 1743 quando il Cardinale Spinelli vi spostò il Seminario Diocesano. Il seminario vi rimase fino all’Unità nel 1860 quando il complesso divenne convitto municipale: chiuso con il terremoto del 1980 oggi ospita alcuni uffici della Curia.

 


 

Il Cinema a Napoli

 

La storia del cinema a Napoli inizia alla fine del XIX secolo e nel tempo ha registrato opere cinematografiche, case di produzione e cineasti di rilievo. Nel corso dei decenni inoltre il capoluogo partenopeo è stato sfruttato come set cinematografico per molte opere, oltre 600 secondo il sito Internet Movie Database, il primo dei quali sarebbe Panorama of Naples Harbour del 1901.

Durante il suo soggiorno a Napoli nel 1888 l'inventore francese Étienne-Jules Marey, con il suo cronofotografo, imprime su pellicola un breve filmato dei Faraglioni intitolato Vague, baie de Naples[3]. Il cinema a Napoli arrivò tre mesi dopo la sua invenzione ad opera dei Fratelli Lumiere, (anche se nel capoluogo partenopeo Menotti Cattaneo aveva brevettato una macchina somigliante[4]): il 30 marzo 1896 al Salone Margherita ci fu la prima proiezione dei lavori dei fratelli francesi[3]. Nel 1896 l'impresa Lumiere gira nella provincia napoletana alcuni filmati, tra cui nel capoluogo, Levée de filets de peche, Via Marina e Santa Lucia[5], rendendola di fatto una delle città con la testimonianza cinematografica più antica.

Nel maggio 1898 il padovano Mario Recanati, considerato il primo in Italia a distribuire e commerciare film, aprì la prima sala cinematografica in Galleria Umberto I al civico 90[4]; in quell'anno la nuova invenzione viene utilizzata anche a scopi pubblicitari ottenendo un successo tale da preoccupare la Questura di Napoli

 

Continua qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Cinema_a_Napoli

 


 

La leggenda di Nisida e Posillipo

 

«Dimmi, Nisida mia così non sentano
le rive tue già mai crucciata Dorida
né Pausillipo in te venir consentano
non ti vid'io poc'anzi erbosa e florida
abitata da lepri, e da cuniculi?
non ti vegg'or, più che altra,
incolta ed orrida?

(Arcadia, Jacopo Sannazaro)

* * *

In una delle sue leggende più belle, Matilde Serao immaginò che Posillipo fosse «un giovane festevole senza chiasso e serio senza durezza: chi lo vedeva lo amava»; mentre Nisida, la sua regina di cuori, una donna fatta di «pietra levigata, dura e glaciale». Erano destinati a vivere uno di fronte all'altra, senza amarsi, divisi da un istmo di terra tanto sottile quanto invalicabile, come le separazioni che portano con sé la ferocia delle cose definitive.

Era bella, Nisida, bella e spietata. La Serao immaginò che per sfuggire a quella vista, che era il suo tormento e la sua seduzione, Posillipo non esitò a «precipitarsi nel mare e finire così la sua misera vita». Ma il fato decise diversamente, mutò lui in un «poggio che si bagna nel mare» e lei, la regina di pietra, nello «scoglio che gli è dirimpetto».

«Lui poggio bellissimo dove accorrono le gioconde brigate, in lui dilettandosi, lei destinata ad albergare gli omicidi ed i ladri che gli uomini condannano alla eterna prigionia così eterno il premio, così eterno il castigo». (Serao)

Se le avessero dato un nome - come fecero per Pausilypon, la collina che «placa il dolore» - di certo quel nome si sarebbe tramandato fino a noi. Invece i greci la chiamarono semplicemente Nesis, ovvero piccola isola. Stazio, che conosceva bene quei luoghi, parlò della selva che ne copriva la cima e delle «esalazioni malefiche» che provenivano dal cratere vulcanico. Plinio decantò le lodi dei suoi asparagi, i migliori che avesse mai mangiato, mentre Ateneo citò i conigli che la popolavano.

Ebbe abitatori illustri. Il più celebre di tutti fu Marco Giunio Bruto, che vi fece costruire la sua residenza estiva. O forse si limitò a farsi ospitare assieme alla moglie Porzia, per lunghi periodi, nella villa dell'amico Marco Licinio Lucullo. Cicerone, nelle Lettere ad Attico, dice di essere stato a Nisida ospite di Bruto. Quando? Probabilmente dopo le Idi di Marzo. Proprio a Nisis, assieme a Cassio, Bruto ordì la congiura contro Cesare. Ma quale fu il luogo preciso dell'intrigo? Dove si stabilì, esattamente, che Cesare dovesse morire? Delle ville di età romana non si hanno più tracce, se non quattro grotte scavate nel tufo di un piccolo ninfeo.

Alla congiura del 44 avanti Cristo presero parte più di sessanta persone. A guidare i congiurati erano gli ex-pompeiani Caio Cassio, praetor peregrinus, e Marco Bruto, praetor urbanus. Alla cospirazione aderirono anche alcuni cesariani, tra cui Decimo Bruto, console designato per l'anno seguente, e Trebonio, uno dei migliori generali di Cesare destinato al consolato nel 42. I colloqui che prepararono il massacro si svolsero presso la villa di Marco Giunio Bruto a Nisida. Dopo l'assassinio del proprio padre adottivo, Bruto si ritirò a vivere di fronte la rada di Trentaremi, prima di andare a morire nella battaglia di Filippi contro Marco Antonio.

Sua moglie Porzia, figlia di Catone, scelse la quiete della regina di pietra per suicidarsi. Dopo aver saputo della tragica morte di Bruto, si tolse la vita trangugiando carboni ardenti, come annota Croce (Storie e leggende napoletane) citando Marziale.

Quando dello sposo Bruto Porzia udì il fato
e il dolore le chiedeva un'arma negata,
non sapete, disse, che non si può negare la morte?
avrei creduto che il suo destino ve l'avesse insegnato
disse, e faville ardenti bevve dall'avida bocca

(Marziale, Epigrammi)

Se a Megaride i primi coloni individuarono il luogo dove la sirena Partenope andò a morire, a Nisida fior di studiosi ed esploratori del mito hanno cercato a lungo le tracce del territorio abitato dai Ciclopi. Dove approdò Ulisse? Numerosi indizi conducono all'antico porto Paone, fondo dell'antico cratere di Nesis.

Ai Ciclopi di contra e né vicino/troppo, né lunge, un'isoletta siede/di foreste ombreggiata ed abitata/ da un'infinita nazion di capre/silvestri, onde la pace alcun non turba. (Omero, Odissea)

È proprio Nisida l'isola «abitata da un'infinita nazion di capre» dove approdò l'eroe omerico? Lo studioso francese Victor Bérard, esperto di storia e geografia dei poemi omerici, non ha dubbi. E Carlo Raso, autore della Guida letteraria del Golfo di Napoli, ne ripercorre gli studi e le esplorazioni. Ulisse, dunque, giunse a Nisida e poi, «abbandonando i tre quarti dell'equipaggio presso la nave tirata a secco», salì alla grotta di Polifemo. La quale altro non era che la gigantesca grotta di Seiano, che penetra nella collina fino al vallone di Bagnoli. Sbarcati alla casa di San Basilio, i primi navigatori salivano fin qui per acquistare bestie, latte e formaggi: la terra dei Ciclopi era abitata.

In epoca arcadica, Giovan Battista del Tufo descrive così la «piccola isola»: «Più innanzi ha per custode una isoletta/colma d'ogni piacer Nisita detta/che sol per essa è ferma in mezzo al mare,/notte e dì sempre attenta a vigilare,/ove prender potreste/ogni trastul, che voi donne vorreste/Et a cento di voi mariti e figli/gli sarian dati lepori e conigli».

Anche il letterato Giovanni Pontano guardava Nisida con gli occhi del mito. Il grande umanista, e primo ministro del Regno Aragonese di Napoli, immaginò che dall'amore tormentato tra il dio Posillipo e la vergine Nisida, «famosa per il suo serpillo, celebre per il suo timo», ma assai di più «per il suo miele», fosse nata la ninfa Antiniana. Si direbbe, come ha osservato lo studioso Sigfrido Höbel, che l'umanista abbia voluto alludere, con la sua favola, «ad un'ideale discendenza della sua Accademia, che si riuniva nella villa di Antignano, da un'antica tradizione culturale, identificata da nomi di Posillipo e Nisida».

«Piccola e snella, cosparsa di rare case bianche, recante come ghirlanda sul capo il rotondo suo castello» (Croce), Nisida ancora nasconde, nei suoi fondali, straordinari manufatti di epoca romana, sommersi per il fenomeno del bradisismo.

Nel Medioevo, ai tempi della regina Giovanna II, fu costruita sul punto più alto dell'isola una Torre di Guardia, per il controllo del territorio e di quel tratto di mare, oggetto di numerose mire espansionistiche. Nel periodo dei viceré spagnoli Nisida divenne il caposaldo del sistema difensivo della città, pianificato dal viceré don Pedro de Toledo, che si estendeva da Baia fino allo Sperone. A incutere terrore erano soprattutto le scorrerie del pirata Barbarossa, celebre comandante della flotta ottomana, sulle coste della Calabria, su Ischia e su Procida.

Nel 1553, durante il pontificato di Pio II, l'isola (che nel frattempo era divenuta di proprietà della chiesa di Napoli) fu venduta a Giovanni Piccolomini, duca di Amalfi, erede di una famiglia arrivata nel Regno di Napoli nel corso della prima guerra dei baroni contro re Ferrante. Nel punto più alto di Nisida, Piccolomini costruì un castello che divenne luogo di ritrovo per gli aristocratici del tempo, i quali vi si recavano spesso per sollazzarsi. Lo scoppio di una terribile epidemia di peste, nel 1626, convinse il viceré Antonio Álvarez de Toledo ad adibire il castello a lazzaretto per raccogliere gli appestati. Fu durante la dominazione borbonica che il fortilizio venne trasformato in un penitenziario. O, per meglio dire, in un «ergastolo», che ospitò pure molti detenuti politici.

Oggi Nisida è sede dell'istituto penale per i minorenni di Napoli e provincia. Si finisce qui per reati che vanno dal furto all'omicidio. Ma Nisida non è un carcere minorile come gli altri. Qui la luce invade tutto, il lavoro è riabilitazione, la bellezza è terapia. Lo capì, prima di altri, il grande Eduardo, che dopo aver urlato il suo Fujtevenne lottò come una tigre per i ragazzi di Nisida. Nell'antico giardino di delizie la redenzione è benedetta dagli dei e dai poeti.

 

Grazie a: https://www.ilmattino.it/rubriche/uovo_di_virgilio/uovo_virgilio_vittorio_del_tufo_niside_posillipo-3712526.html


 

Le ville rinascimentali nella Napoli aragonese e nel Cinquecento: Villa di Ferrante d'Aragona

 

La villa di Ferrante d'Aragona (meglio conosciuta come villa La Ferrantina) è un'ex villa di Napoli;

era situata sulla costa di Chiaia.

La struttura in oggetto era un grandioso complesso reale di Alfonso II, erede del padre Ferrante d'Aragona. Era immersa nella macchia mediterranea della Riviera di Chiaia (una zona che non si era ancora inurbata alla città); secondo la storiografia, i fabbricati della villa raggiungevano la zona dove oggi è la chiesa di Santa Maria in Portico.

Oggi la struttura è quasi completamente scomparsa: sono sopravvissute soltanto alcune strutture che si trovano all'interno della Palazzina Bivona in via Vittorio Imbriani.

 

Il contenuto di Google Maps non è mostrato a causa delle attuali impostazioni dei tuoi cookie. Clicca sull' informativa sui cookie (cookie funzionali) per accettare la policy sui cookie di Google Maps e visualizzare il contenuto. Per maggiori informazioni, puoi consultare la dichiarazione sulla privacy di Google Maps.

 

Il Gigante a guardia di Largo di Palazzo

 

Ci fu un tempo in cui Largo di Palazzo, l’attuale piazza Plebiscito, era sorvegliata da una immensa statua di Giove proveniente dalla rube euboica di Cuma, la prima città della Magna Grecia e anello di congiunzione tra Napoli e l’Ellade. Il Gigante del Largo di Palazzo, così come venne chiamato dai napoletani, fu collocato nel 1668 sul margine meridionale della piazza dal viceré don Pedro Antonio d’Aragona e rappresentò per ben 138 anni il veicolo attraverso il quale i napoletani – con la propria straripante ironia – si prendevano gioco dei potenti.

Da simbolo del potere autoritario, dal forte impatto evocativo, la statua del Giove Cumano divenne per il popolo il Gigante parlante, l’improbabile portavoce di lazzari e intellettuali che con sberleffi e componimenti satirici schernivano le cariche istituzionali che si susseguivano nell’adiacente Palazzo Reale. Un’usanza dilagante e profondamente oltraggiosa capace di mandare su tutte le furie i governati di Napoli, che a più riprese tentarono di estirpare questa umiliante condanna con ogni mezzo. Si racconta che il viceré Luis de la Cerda, duca di Medinaceli, sul finire del XVII secolo provò a scoraggiare i napoletani promettendo una taglia di 8.000 scudi d’oro a chiunque fosse stato capace di cogliere sul fatto gli irriverenti burloni. Un tentativo che, ahilui, si dissolse nell’assai inquietante controproposta dei lazzari napoletani, che nella notte affissero sulla base della statua una taglia di 80.000 Ducati d’oro per chiunque fosse in grado di decollare l’ardito governante ed esporre la testa mozzata in piazza Mercato.

Durate i burrascosi moti rivoluzionari del 1799 il popolo fasciò il Gigante cumano con i colori della Repubblica Napoletana, e sul capo riccioluto di Giove fu riposto ilsimbolo della rivoluzione francese, un enorme berretto frigio che fu poi strappato via qualche tempo dopo dai sanfedisti Napolitani capeggiati dal Cardinale Ruffo.

Ma che fine ha fatto questa colossale statua classica, ignara protagonista della nostra storia millenaria? Ebbene, l’acròlito di Giove fu destinato all’oblio da Giuseppe Bonaparte, sul trono di Napoli dal 1806 al 1808. Il re di Napoli, stanco dell’intemperanze dialettiche del Gigante cumano, ordinò che fosse smantellato e condotto nelle scuderie reali, fino a quando, agli inizi del XIX secolo, entrò a far parte della collezione esposta nel Real Museo Borbonico di Napoli.

 


 

Lo tsunami a Napoli del 1343 raccontato da Petrarca

 

Francesco Petrarca si trovava a Napoli per conto del Papa Clemente VI per trattare la liberazione di alcuni prigionieri. E’ la sua seconda visita in città, dopo quella di due anni prima in cui aveva voluto farsi esaminare dal re napoletano Roberto D’Angiò prima dell’incoronazione a poeta in Campidoglio. Alcuni giorni prima Petrarca annotò che il cielo di Napoli era diventato nero e che fulmini e temporali lasciavano presagire il peggio.

 

«Aperta la finestra che guarda verso occidente Vidi la luna avanti a mezzanotte nascondersi dietro il monte di S. Martino, con la faccia piena di tenebre e di nubi».

 

Petrarca scrive che un vescovo in un’isola del golfo di Napoli (si trattava, probabilmente, di Guglielmo di Ischia) era da giorni che predicava una terribile sciagura che si sarebbe abbattuta su Napoli. La mattina del 25 novembre avvenne l’inaspettato: una grande onda anomala divorò pescatori e intere imbarcazioni in un istante. Petrarca si nascose nei locali dei frati della chiesa di San Lorenzo e insieme a lui gli uomini di fede iniziarono a pregare.

 

«Era pieno tutto quello spatio di persone affogate o che stavano per affogarsi: chi con la testa, chi con le braccia rotte e altri che uscivano loro le viscere, nè il grido degli uomini e delle donne che abitavano nelle case vicino al mare era meno spaventoso del fremito del mare».

 

Quando Petrarca verso il tramonto si mise a letto per addormentarsi, il tempo peggiorò ancora. Nel suo quinto libro delle “Epistolae familiares” descrive in maniera diretta quello che sta accadendo: sente tremare le finestre e le mura della stanza; il lume da notte, che per abitudine tiene sempre acceso accanto a lui, si spegne da solo; percepisce il letto tremolante e le urla assordanti della popolazione.

 

«Mi svegliò un rumore e un terremoto, il quale non solo aperse le finestre e spense il lume, ch’io soglio tenere la notte, ma commosse da i fondamenti la camera dove io stavo».

 

D’improvviso ci fu silenzio e il tutto sembrò essere giunto alla fine; poi un boato fortissimo proveniente dal mare diede invece inizio all’inferno. Il priore munì i frati, e lo stesso Petrarca, di fiaccole, c’erano persone genuflette intente a pregare. 

 

«e mentre tra le tenebre l’uno cercava l’altro nè si poteva vedere se non per beneficio di qualche lampo, cominciavamo a urtare l’un l’altro; e gettati tutti in terra non facevamo altro che con altissime voci invocar la misericordia di Dio».

 

La terribile notte era passata; Petrarca di buon mattino salì sul suo cavallo e insieme ad altri frati si diresse verso il porto. Lo scenario fu terribile: il mare aveva inghiottito ogni cosa, case, persone, animali. Non c’erano più alcune case e chiese, la stessa cosa anche sulla costa di Amalfi e Minori. L’onda anomala aveva causato migliaia di morti, ma incredibilmente ci fu una zattera che restò in condizioni perfette. Quella zattera piccola ed insignificante, su cui erano sopravvissuti per miracolo, ospitava 400 galeotti. Un’ironia della sorte che non sfuggì allo humor del poeta toscano che così scrisse: «Perché sia dato comprendere che nei pericoli della morte più sicuri sono coloro che più a vile hanno la vita». 

 

Fu così scosso da questa tragedia che al suo ritorno Petrarca giurò che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe messo piede a Napoli e in qualsiasi posto che si affacciava sul mare. La regina Giovanna, appena sedicenne, accorse scalza per vedere cosa era successo; fu qui che inventò la storia dell’Uovo del Castell’dell’Ovo.

 

Ad oggi è stato possibile scoprire che quel maremoto fu causato dal bradisismo del vulcano marino Marsili, poichè ha una natura esplosiva e una sua eruzione potrebbe causare uno tsunami che in circa mezz’ora colpirebbe le coste limitrofe.

 

Grazie a: Storie di Napoli


 

GRIMALDI PER NATALE 2

 

 


 

Il Presepe Napoletano

 

Il presepe napoletano è una rappresentazione della nascita di Gesù ambientata tradizionalmente nella Napoli del Settecento.L'arte presepiale napoletana si è mantenuta tutt'oggi inalterata per secoli, divenendo parte delle tradizioni natalizie più consolidate e seguite della città. Famosa a Napoli, infatti, è la nota via dei presepi (via San Gregorio Armeno) che offre una vetrina di tutto l'artigianato locale riguardante il presepe. Inoltre, numerosi sono i musei cittadini e non (come il museo di San Martino o la reggia di Caserta) nei quali sono esposti storici pezzi o intere scene ambientati durante la nascita di Gesù.La prima menzione di un presepio a Napoli compare in un istrumento, cioè un atto notarile, del 1021, in cui viene citata la chiesa di Santa Maria "ad praesepe" (Luigi Correra, Il presepe a Napoli, fasc. IV, pag. 325, Università degli Studi di Palermo). In un testo del 1324 si fa riferimento ad una "cappella del presepe di casa d'Alagni" ad Amalfi (Stefano de Caro et al., Patrimoni intangibili dell'umanità. Il distretto culturale del presepe a Napoli, Guida editore). Nel 1340 la regina Sancia d'Aragona (moglie di Roberto d'Angiò) regalò alle Clarisse un presepe per la loro nuova chiesa[senza fonte], di cui oggi è rimasta la statua della Madonna nel museo nazionale di San Martino.

 

Altri esempi risalgono al 1478, con un presepe di Pietro e Giovanni Alemanno di cui ci sono giunte dodici statue, e la Natività di marmo del 1475 di Antonio Rossellino, visibile a Sant'Anna dei Lombardi.

 

Nel XV secolo si hanno i primi veri e propri scultori di figure. Tra questi sono da menzionare in particolare i fratelli Giovanni e Pietro Alemanno che nel 1470 crearono le sculture lignee per la rappresentazione della Natività. Nel 1507 il lombardo Pietro Belverte scolpì a Napoli 28 statue per i frati della chiesa di San Domenico Maggiore. Per la prima volta il presepio fu ambientato in una grotta di pietre vere, forse venute dalla Palestina, ed arricchito con una taverna.

 

Nel 1532 secolo registrò delle novità: Domenico Impicciati fu probabilmente il primo a realizzare delle statuine in terracotta ad uso privato. Uno dei personaggi, altra novità, prese le sembianze del committente, il nobile di Sorrento, Matteo Mastrogiudice della corte aragonese.

 

Nel 1534 arrivò a Napoli san Gaetano da Thiene che aveva già dato prova di grande amore per il presepio nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. L'abilità di Gaetano accrebbe la popolarità del presepio e particolarmente apprezzato fu quello costruito nell'ospedale degli Incurabili. Ed è proprio san Gaetano da Thiene che viene indicato come l'"inventore" del presepe napoletano e come colui che diede inizio alla tradizione di allestire il presepe nelle chiese e nelle case private in occasione del Natale[2]. Si deve ai sacerdoti scolopi, nel primo ventennio del Seicento, il presepio barocco. Le statuine furono sostituite da manichini snodabili di legno, rivestiti di stoffe o di abiti. I primissimi manichini napoletani erano a grandezza umana per poi ridursi attorno ai settanta centimetri. Il presepio più famoso fu realizzato nel 1627 dagli Scolopi alla duchessa. La chiesa degli scolopi lo smontava ogni anno per rimontarlo il Natale successivo: anche questa fu un'innovazione perché fino ad allora i presepi erano fissi.

 

Nel 1640, grazie a Michele Perrone, i manichini conservarono testa ed arti di legno, ma furono realizzati con un'anima in filo di ferro rivestito di stoppa che consentì alle statue di assumere pose più plastiche. Verso la fine del Seicento nacque la teatralità del presepio napoletano, arricchita dalla tendenza a mescolare il sacro con il profano, a rappresentare in ogni arte la quotidianità che animava piazzette, vie e vicoli. Apparvero nel presepio statue di personaggi del popolo come i nani, le donne con il gozzo, i pezzenti, i tavernari, gli osti, i ciabattini, ovvero la rappresentazione degli umili e dei derelitti: le persone tra le quali Gesù nasce. Particolarmente significativa fu l'aggiunta dei resti di templi greci e romani per sottolineare il trionfo del cristianesimo sorto sulle rovine del paganesimo, secondo un'iconografia già ben radicata in pittura.

 

Nel Settecento il presepio napoletano visse la sua stagione d'oro, uscendo dalle chiese dove era oggetto di devozione religiosa per entrare nelle dimore dell'aristocrazia. Nobili e ricchi borghesi gareggiarono per allestire impianti scenografici sempre più ricercati. Giuseppe Sanmartino, forse il più grande scultore napoletano del Settecento, fu abilissimo a plasmare figure in terracotta e diede inizio ad una vera scuola di artisti del presepio.

 

La scena si sposta sempre più al di fuori del gruppo della sacra famiglia e più laicamente s'interessa dei pastori, dei venditori ambulanti, dei re Magi, dell'anatomia degli animali. Benché Luigi Vanvitelli definì l'arte presepiale "una ragazzata", tutti i grandi scultori dell'epoca si cimentarono in essa fino all'Ottocento inoltrato.

 

 Grazie a Wikipedia per l'ottima voce sul presepe napoletano:

https://it.wikipedia.org/wiki/Presepe_napoletano

 

 

 


 

IL GIARDINO NAPOLETANO

 

I giardini napoletani hanno conquistato l’intera città, nel corso dei secoli. Si ritrovano dentro e sopra le mura, all’interno delle cittadelle monastiche, nei giardini reali e in quelli pubblici, nei recinti cimiteriali, negli orti botanici,

nei giardini di agricoltura.

Il verde storico napoletano, vero e proprio patrimonio inestimabile della città, è ripartito in quattro zone della città (Centro Antico, Foria-Sanità-Vergini, Capodimonte, Chiaia-Posillipo-Vomero), censito dagli studiosi che hanno provveduto a “contare” anche i giardini delle abitazioni private, particolarmente numerosi soprattutto in certi quartieri.

Esiste una letteratura di settore che eleva il livello ragguardevole del giardino napoletano in tutte le sue espressioni fino all’Ottocento, di cui restano testimonianze di autorevoli storici, suddivise anch’esse per quartiere: l’area verde di Poggioreale e della Duchesca si deve a Giuliano da Maiano, la zona di Tarsia a Vaccaro, il parco settecentesco di Capodimonte e la Floridiana sono merito di  Niccolini, parchi storici e monumentali che non hanno niente da invidiare alle distese verdi laziali o toscane.

Il giardino sacro a Napoli tra Sei e Settecento ha raggiunto un’ eccezionale diffusione, Santa Chiara ne è il testo più bello e rappresentativo ma esiste ancora oggi un sistema di ville e giardini aristocratici ottocenteschi che circondano il parco reale di Capodimonte, perfettamente inserite nel contesto storico-urbano del territorio. A questo sistema si aggiungono le ville del versante  a mare della collina di Posillipo, immerse in parchi e giardini che guardano il magnifico paesaggio del golfo.

Dagli studi condotti dagli storici è emersa anche una particolare forma di giardino, tipicamente napoletano, che è quella del giardino da agricoltura. Definito come quello legato più di tutti al topos e all’orografia terrazzata di Napoli, il giardino “napoletano” è nascosto tra le case, dietro gli alti muri, resiste ai piedi delle antiche fortificazioni.

Rappresenta un’estensione all’aperto della casa greco-romana, assumendo di volta in volta diverse sembianze: ora costruito in aiuole, ora organizzato in riquadri essenziali, spesso traboccante di alberi da frutto e piante ornamentali con essenze aromatiche, molto simile all’hortus di epoca romana.

La cattiva manutenzione dei giardini ha imposto però un’i mportante battuta d’arresto per la crescita dei rigogliosi spazi verdi, a cui la città ha dovuto rinunciare proprio a causa di un concetto molto labile di gestione e di una dilagante speculazione edilizia che spesso ha tagliato senza nessun criterio gli spazi verdi, solo perché erano di ostacolo alla espansione edificatoria. Il  giardino d’agricoltura ha, infatti, una presenza ancor oggi numericamente apprezzabile solo nelle aree meno toccate dalla speculazione edilizia del secondo dopoguerra, Centro Antico e Foria, Sanità e Vergini.

Le aree verdi degli altri quartieri, rimasti in preda ad una selvaggia urbanizzazione  sono divenute malinconiche aree di “verde attrezzato” e, nei casi più insopportabili, ricetti edilizi senza qualità. Basta confrontare l’o ttocentesca Pianta di Napoli (1872-80) dello Schiavoni con quella attuale per cogliere l’ingente sacrificio di aree di verde storico che s’è consumato in poco più di cent’anni di sviluppo urbano.

Tra Settecento e Ottocento sono stati cancellati i paradigmi delle ville di Poggioreale e della Duchesca e nel corso del Novecento i giardini sono divenuti sempre più presenze episodiche, spesso sacrificati a vantaggio della costruzione di parcheggi, sulla base d’una apposita legge che autorizza e anzi incoraggia iniziative del genere.

Il Chiostro del Monastero di Santa ChiaraIl Chiostro del Monastero di Santa Chiara

 

 

 


 

“Quanno spónta la luna a Marechiaro”… una canzone diventata leggenda

 

“L’ultimo suo lavoro è uno dei non pochi ricordi di quel delizioso Mezzogiorno, dove i canti popolari escono spontanei, melodici, e per imitarli ci vuole un’attitudine particolare, della quale il Tosti è provvisto abbondantemente. Il canto napoletano, da lui recentemente pubblicato, è uno dei suoi migliori per il carattere giusto, la snellezza e il fuoco che lo riscalda. S’intitola Marechiare, dal nome di un paesello, in riva al mare, ed i versi, molto graziosi, sono di Salvatore di Giacomo, buon poeta popolare”. Con queste parole, pubblicate sulla Gazzetta Musicale di Milano nel 1886, il giornalista Filippo Filippi sembra aver racchiuso completamente la poesia che si cela all’interno di una delle canzoni napoletane più celebri: A Marechiaro.

Le uniche definizioni che forse non convincono sono “poeta popolare” riferite a di Giacomo, una delle voci più originali della fine del secolo, nonché poeta, scrittore e giornalista, che riuscì attraverso la lingua napoletana a sublimare i più puri sentimenti dell’uomo. Inoltre egli fu capace di creare una leggenda che unita alla realtà consacrò ulteriormente A Marechiaro tra le canzoni più amate del mondo. In un racconto pubblicato sul “Corriere di Napoli” il 6 febbraio 1894, lo stesso di Giacomo narrò l’origine della canzone. Durante una gita fatta con alcuni amici all’Aquarium di Napoli, decise di fare un giro nel golfo a bordo di un vaporetto della Stazione Zoologica. Da lì a Marechiaro il passo fu breve e si ritrovarono tutti in un’osteria situata non lontana dalla celebre “fenestrella”.

Il padrone dell’esercizio confessò alla comitiva che il celebre di Giacomo era stato lì a pranzo e che dopo aver osservato il panorama, compose la canzone. In verità, nello stesso articolo, l’artista affermò che quella era la sua prima volta a Marechiaro. In realtà, come sostengono in molti, il compositore scrisse quegli splendidi versi mentre beveva un caffè seduto a un tavolino del prestigioso Gambrinus. Eppure senza saperlo, di Giacomo aveva descritto una realtà che era esistita davvero. Reale era la finestra con il garofano sul davanzale e reale era anche una giovane che si chiamava Carolina, moglie di uno dei proprietari di quell’osteria dove l’artista si era seduto la prima volta. Dell’ispirazione di Francesco Paolo Tosti, si sa invece, che trasse quella melodia così semplice eppure così ammaliante, ispirandosi alle note intonate da un posteggiatore. L’uomo ogni sera prima di iniziare, con il suo flauto, ad accompagnare le canzoni del suo compagno suonava, per esercitarsi, quello stesso motivetto che apre A Marechiaro. Si narra che di Giacomo per far musicare il suo testo chiese, scherzosamente all’amico Tosti il compenso di una sterlina d’oro. Somma che l’artista pagò pur di contribuire alla creazione della celebre canzone.

 

Grazie a: https://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/110520-quanno-sponta-la-luna-a-marechiaro-una-canzone-diventata-leggenda/

 


 

Castello del Carmine

 

Il castello del Carmine o Sperone era una fortezza della città di Napoli, nel quartiere Mercato collocabile tra piazza del Carmine, via Marina e corso Garibaldi. Edificato nel 1382 da Carlo III di Durazzo (sovrano del periodo angioino), l'edificio fu collocato volutamente all'angolo meridionale della cinta muraria cittadina come baluardo difensivo, in prossimità di un torrione chiamato Sperone, laddove un tempo proliferavano gli acquitrini della Palus neapolitana. Si tratta di una delle realizzazioni militari più recenti rispetto alle analoghe costruzioni della città di Napoli, dovute al ritardo nella conurbazione dell'area orientale ed alla necessità di difenderla dagli attacchi provenienti da oriente, sia via mare che da terra. A differenza, però, degli altri fabbricati (Castel dell'Ovo, Castel Capuano, etc.) non presentava arredi di lusso né sale regali, essendo esclusivamente adibito ad uso militare.Il progetto originale si caratterizzava di due torri cilindriche, di un elevato torrione e di mura merlate congiunte da robusti blocchi di piperno. Il castello fu teatro non appena quattro anni dopo la sua costruzione della battaglia che vedeva contrapposti Luigi II d'Angiò e Ladislao di Durazzo. In seguito, durante l'assedio di Alfonso V d'Aragona, che vide morire suo stesso fratello in battaglia, Pietro, sostenne la difesa degli angioini, ma non fu abbastanza per mantenere il regno.Ulteriori modifiche furono realizzate nel 1484, quando le mura della città furono ampliate e modificate dagli aragonesi: per volere di Ferdinando I d'Aragona, si decise di arricchire le mura partendo dal maggior torrione presente presso il castello del Carmine, prendendo spunto dall'ingegner Francesco Spinelli che fu preposto ai lavori e che appose una lapide in ricordo dell'evento. Nel 1512, a causa di un'alluvione, il torrione principale fu riedificato in forma quadrata. Fra il 1647-1648, durante la rivolta di Masaniello, fu la dimora del capopopolo Gennaro Annese. Nel 1662, a seguito delle mutate condizioni belliche, per decisione del viceré conte di Peñaranda, fu seriamente rimaneggiato dal punto di vista militare, conferendo maggiore risalto agli arredi e alle stanze che avrebbero dovuto ospitare i capitani di ventura e i mercenari più esigenti e separandone nettamente gli ambienti dall'area conventuale dei Carmelitani. Il viceré affidò la progettazione dei lavori a Bonaventura Presti e la sua realizzazione agli ingegneri Donato Antonio Cafaro e Francesco Antonio Picchiatti.[2] Tra gli eventi più celebri che si sono svolti in questa sede si ricordano: la proclamazione della “Serenissima Real Repubblica Napolitana” che, però, durò solo alcuni giorni; la congiura di Macchia, nel 1707, che anticipò l'arrivo degli Austriaci; l'occupazione delle truppe francesi di Championnet nel 1799; lo strenuo tentativo di resistenza del contingente borbonico di stanzia ai Mille di Garibaldi.

Il castello venne demolito nel 1906 per rettificare l'ultimo tratto del corso Garibaldi. Al suo posto sorse la caserma Giacomo Sani in stile neorinascimentale, adibita a panificio militare e che sarà tagliata della parte meridionale alla fine degli anni settanta per il nuovo tracciato di via Marina.

Sulla parte ovest del forte, negli anni trenta fu realizzato l'edificio dei Magazzini militari, progettato da Camillo Autore e anch'esso demolito alla fine degli anni settanta. Questo era situato tra il vado del Carmine (ancora nella sua posizione originaria) e la torre Brava (in esso inglobata) e mostrava uno stile tipicamente fascista.[3]

 


 

Palazzo Doria d'Angri

 

Il palazzo Doria d'Angri è un palazzo monumentale di Napoli situato in piazza Sette Settembre (già largo dello Spirito Santo), lungo via Toledo, dinanzi al palazzo Carafa di Maddaloni. L'edificio fu eretto su commissione di Marcantonio Doria su due precedenti abitazioni cinquecentesche acquistate dal principe nel 1749 una e nel 1755 l'altra. Nel 1760 venne demolito il complesso più grande preesistente, ma in quell'anno il Doria morì e l'idea di realizzare il palazzo di famiglia passò perciò al figlio Giovanni Carlo che incaricò del progetto l'ormai anziano Luigi Vanvitelli.[1]

Avviati i lavori, dopo la morte del Vanvitelli avvenuta nel 1773 i progetti passarono a Ferdinando Fuga prima, poi a Mario Gioffredo e infine a Carlo Vanvitelli, figlio di Luigi, a cui si deve sostanzialmente la configurazione attuale dell'edificio.

Nel 1778 i lavori si fermarono poiché una parte del fabbricato in costruzione usciva lievemente dal lotto originario: ciò causò una lite con il marchese Polce che aveva un terreno in fitto in quel punto. Il Doria ottenne da lì a poco comunque quel suolo così da completare il prospetto del palazzo apponendovi le quattro colonne del portale.

Durante la costruzione si ebbe l'idea di realizzare anche un portale laterale che dava su via Toledo, ma i lavori si fermarono alla sola progettazione da parte dell'ingegnere Gaetano Buonocore. Di fatto un secondo ingresso fu posto invece nella facciata posteriore dell'edificio, di fronte al monumentale palazzo Carafa di Maddaloni.[2] Ulteriori interventi furono poi fatti intorno al primo trentennio dell'Ottocento da Antonio Francesconi, attivo in quel periodo anche nell'altro edificio di famiglia, villa Doria a Posillipo, il quale adattò gli ambienti all'uso abitativo.

Nel 1860 il palazzo divenne famoso perché il 7 settembre Giuseppe Garibaldi annunciò dal balcone dello stesso l'annessione del Regno delle Due Sicilie a quello d'Italia.[1]

Nel 1940 la notevole collezione di Marcantonio Doria conservata nel palazzo, che comprendeva ceramiche, arti applicate e dipinti, tra cui alcuni di Van Dyck, Rubens ed il Martirio di sant'Orsola di Caravaggio,[1] fu scompattata e venduta all'asta; in questa occasione la tela del Merisi fu acquistata dalla banca commerciale italiana esponendola nella storica sede napoletana di palazzo Zevallos. Durante la seconda guerra mondiale il complesso subì alcuni danneggiamenti, soprattutto nella parte superiore della facciata principale, perdendo così sei delle otto sculture che abbellivano il cornicione superiore dell'edificio e il grande stemma nobiliare della famiglia Doria posto sopra il finestrone del piano nobile. Le decorazioni delle sale interne al piano nobile, invece, sono del tutto scampate ai bombardamenti. Oggi, ristrutturata, è sede di un'azienda privata.

 


 

Parco sommerso di Gaiola

 

Istituita con Decreto Interministeriale del 7/8/2002, l’Area Marina Protetta “Parco Sommerso di Gaiola” prende il nome dai due isolotti che sorgono a pochi metri di distanza dalla costa di Posillipo, nel settore nord occidentale del Golfo di Napoli. Con una superficie di appena 41,6 ettari, si estende dal pittoresco Borgo di Marechiaro alla suggestiva Baia di Trentaremi racchiudendo verso il largo parte del grande banco roccioso della Cavallara.

Attualmente gestito dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Napoli, il Parco Sommerso di Gaiola deve la sua particolarità alla fusione tra aspetti vulcanologici, biologici e storico-archeologici, il tutto nella cornice di un paesaggio costiero tra i più suggestivi del Golfo. I costoni rocciosi e le alte falesie di Tufo Giallo Napoletano, rimodellate dal mare e dal vento, ammantate dai colori della macchia mediterranea, regalano ancora oggi scorci di rara bellezza che da sempre hanno incantato i popoli che qui si sono succeduti.

Proprio per l’amenità dei luoghi e la bellezza del paesaggio, infatti, a partire da I sec a.C. su questa costa si insediarono suntuose ville dell’aristocrazia romana, la più importante delle quali fu quella del Pausilypon (“luogo dove finiscono i dolori”) che, eretta da Publio Vedio Pollione e divenuta alla sua morte (15 a.C.) villa Imperiale, occupava gran parte della fascia costiera dell’attuale Parco. Resti di ville marittime, maestose cave di tufo, approdi, ninfei e peschiere sono oggi visibili lungo la costa sopra e sotto la superficie del mare, a causa del fenomeno vulcano-tettonico di lento sollevamento e abbassamento della crosta terreste denominato “bradisismo”.

La vita marina ha poi fatto il resto. L’estrema complessità geomorfologica dei fondali e la favorevole circolazione delle correnti marine, ha infatti permesso l’insediamento in pochi ettari di mare di una ricca e variegata comunità biologica che oggi riempie di vita e colori ciò che la storia della terra e quella dell’uomo hanno creato. Così mentre polpi, saraghi, donzelle e nuvole di “guarracini” si aggirano tra gorgonie ed antiche vestigia, una murena resta in agguato proprio tra i mattoni consumati dal tempo di un antico murenario romano...

Il Parco Sommerso di Gaiola oggi è un importante sito di Ricerca, formazione, divulgazione scientifica ed educazione ambientale per la riscoperta e valorizzazione del patrimonio naturalistico e culturale del Golfo di Napoli.

 

https://www.areamarinaprotettagaiola.it/

 


 

PALAZZO ARCIVESCOVILE

 

Il palazzo Arcivescovile è situato in largo Donnaregina 22.

Fu edificato per la prima volta tra il 1389 e il 1410, per volontà del cardinale Enrico Capece Minutolo che, al tempo, ricopriva la carica di arcivescovo di Napoli. Inizialmente, l’ingresso avveniva attraverso una porta posta in vico Sedil Capuano, ora diventato un semplice accesso al Seminario. Il portale principale attuale, invece, risale agli stessi anni in cui veniva costruito il palazzo, con lo stemma dei Capece Minutolo, mentre il portone venne ricostruito durante un restauro del 1613 voluto dal cardinale Decio Carafa.

Le trasformazioni più radicali, però, si ebbero tra il 1643 e il 1650, periodo in cui il cardinale Ascanio Filomarino decise di abbattere alcuni edifici circostanti e ampliare e restaurare alcuni spazi riservati alla struttura, visto che questa era troppo vicina alle case che la circondavano e che, ormai, necessitava di interventi strutturali per prevenire eventuali crolli. Questi rifacimenti determinarono la costruzione di tre nuovi portali in piperno, di ognuno dei quali fu posta un epigrafe in ricordo dei lavori voluti dal cardinale; su quello centrale, inoltre, venne posta una statua in marmo raffigurante San Gennaro, restaurata successivamente nel 1796 per volere del cardinale Guglielmo Sanfelice.

All’interno, nell’appartamento del cardinale, sono di notevole interesse gli affreschi di Giovanni Lanfranco, raffiguranti dei paesaggi, che l’artista realizzò nel XVII secolo.

 


 

Il Tempio dei Dioscuri a Napoli

 

Il tempio dei Dioscuri è un tempio romano di Napoli sulle cui rovine sorge la basilica di San Paolo Maggiore in piazza San Gaetano. Nell'Odissea di Omero, Castore, domatore di cavalli, e Polluce, valente pugilatore, sono indicati come figli di Leda e di Tindaro. Secondo altre tradizioni erano figli di Zeus e per questo motivo chiamati Dioscuri, che in greco significa proprio figli di Zeus. Il culto dei due eroi costretti a vivere e morire ciascuno a giorni alterni era molto diffuso in Grecia, soprattutto a Sparta, ma anche nelle colonie della Magna Grecia e della Sicilia. I Dioscuri erano considerati numi della poesia, della musica e della danza, e nelle pòleis dell'Italia meridionale venivano venerati come protettori dei naviganti.

Del resto in una città marinara come Neapolis, era naturale che accanto ad Apollo e a Demetra Attica figurassero tra le patrie divinità anche i due intrepidi gemelli, legati al mare e cari a Poseidone. Il tempio venne probabilmente costruito inizialmente all'epoca della fondazione della città, come sembra provato dai resti di fondazioni attribuite al V secolo a.C., e fu dedicato ai Dioscuri, Castore e Polluce. Fu ricostruito nella prima età imperiale, probabilmente sotto Tiberio (14-37 d.C.), nel quadro di una nuova sistemazione urbanistica dell'area del foro napoletano: il culto dei Dioscuri si era trasformato in un culto di tipo dinastico, strettamente collegato ai membri della casa imperiale destinati alla successione.

L'iscrizione della facciata riportava il seguente testo:

«Tiberio Giulio Tarso (fece costruire) in onore dei Dioscuri e della Pòlis il tempio e tutto quanto è in esso/Pelagon liberto e procuratore dell'imperatore, avendolo finito a sue spese, lo dedicò.»

I finanziatori dell'opera furono dunque due liberti imperiali, di origine orientale.

Il tempio tra l'VIII e il IX secolo venne inglobato nella chiesa di San Paolo, conservando inalterata la facciata, con l'iscrizione dedicatoria incisa sul fregio e la decorazione del frontone. Un disegno dell'artista portoghese Francisco de Hollanda riprodusse la fronte dell'edificio nel 1540, con particolare cura per le figure del frontone e per l'iscrizione che i finanziatori dell'opera avevano voluto porre a ricordo.

Tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento la chiesa, inserita nel convento istituito da san Gaetano di Thiene, fu ricostruita da Francesco Grimaldi, sempre lasciando in facciata l'antico pronao del tempio.

I terremoti del 1686-1688 causarono gravi danni alla facciata: soltanto quattro delle otto colonne corinzie erano rimaste in piedi con due basi. Gli elementi crollati, lasciati sulla strada, andarono dispersi con il tempo[1]. Altre due colonne furono rimosse nei primi anni del Settecento.

Nel 1972, proprio sotto le statue di san Pietro e san Paolo, simmetricamente disposte sulla facciata, incastrati in due nicchie, sono stati rinvenuti due torsi di marmo più grandi del vero, identificati come statue di Castore e di Polluce e oggi conservati al museo archeologico dopo il restauro.La decorazione del frontone[2] del tempio dei Dioscuri è stata ricostruita attraverso il disegno del 1540 di Francisco de Hollanda. Le figure convergono al centro del frontone, dominato dai personaggi principali, i Dioscuri e la personificazione della pòlis. Agli angoli sono dei tritoni, e le personificazioni della Tellus (la dea Terra) e di Oceanus, accanto ad Apollo e Diana.

Le due colonne superstiti che oggi caratterizzano la facciata della basilica di San Paolo Maggiore sono di ordine corinzio.

 


 

Fontana di Medinacoeli

 

Nel 1697 il viceré Luis Francisco de la Cerda y Aragón, duca di Medinacoeli, fece realizzare la Passeggiata di Chiaia, caratterizzata da un doppio filare di alberi ornato da tredici fontane, dodici delle quali più semplici e adibite a lavatoi, di pianta circolare, talune formate unicamente da zampillo centrale e da un alto pilastro laterale affiancato da volute, altre ornate da una tazza centrale sorretta da animali. La Fontana di Medinacoeli apriva questo corteo delle acque e si trovava nei pressi della Torretta: la struttura era formata da una vasca ellittica al centro della quale si ergeva un balaustro sorreggente una tazza da cui usciva l’acqua; la forma ellittica della vasca era assecondata da una struttura a tre archi che le girava attorno e che inquadrava la tazza centrale, una sorta di elegante paravento aperto verso il golfo; le tre arcate erano a fornici ribassati decorati da volute contrapposte lungo la chiave d’arco, mentre quattro paraste delimitavano la struttura monumentale; la particolarità delle paraste era la totale assenza del capitello (sostituito da un’elegante voluta a guisa di mensola) e dalla presenza nella parte inferiore, ai lati degli archi, di possenti, aggettanti e panciute volute coronate da delfini assai eleganti con la coda avviluppata e intrecciata (l’acqua fuoriusciva anche da sei mascheroni posizionati lungo le basi sorreggenti le quattro volute); la parte immediatamente superiore al sistema di archi era decorata al centro da una lapide dedicata al viceré e ai lati da oculi contenenti due busti (presumibilmente i busti del viceré duca di Medinacoeli e del re Carlo II di Spagna); l’intera struttura era sormontata da tre stemmi (del re, del viceré e della città), ghirlande, vasi e obelischi

 

http://criticartlesson.altervista.org/le-fontane-di-napoli-ii-parte-epoca-barocca/

 


 

Banco di Napoli: La Storia di un furto

 

Il Banco di Napoli è stata una delle più importanti e più antiche banche del mondo; le sue origini risalgono ai cosiddetti banchi pubblici dei luoghi pii, sorti a Napoli tra il XVI e il XVII secolo, in particolare ad un monte di pietà, il Banco della Pietà, fondato nel 1539 per concedere prestiti su pegno senza interessi, il quale nel 1584 aprì una cassa di depositi, riconosciuta da un bando del viceré di Napoli nello stesso anno. Alcuni studiosi ne fanno risalire le origini al 1463, quando la Casa Santa dell'Annunziata già operava a Napoli.[2][3] Questa data di fondazione renderebbe il Banco di Napoli la più antica banca al mondo in continua attività sino al 2018.

L'ex sede centrale della banca in via Toledo

Altri sette istituti simili vennero successivamente fondati in Napoli tra il 1587 ed il 1640:

"Banco dei Poveri" (1563);

"Banco della Santissima Annunziata" (1587);

"Banco del Popolo" (1589);

"Banco dello Spirito Santo" (1590);

"Banco di Sant'Eligio" (1592);

"Banco di San Giacomo e Vittoria" (1597);

"Banco del Salvatore" (1640).

Dopo circa due secoli di attività indipendente tra di loro, un decreto di Ferdinando IV di Borbone, nel 1794, porta all'unificazione degli otto istituti esistenti in un'unica struttura che viene denominata Banco Nazionale di Napoli.

Seguendo i cambiamenti politici che hanno caratterizzato il XIX secolo a Napoli e nell'Italia meridionale, anche il Banco di Napoli muta denominazione e struttura. Passando dal regno dei Borbone a quello di matrice napoleonica, il re di Napoli Gioacchino Murat tenta di trasformare il Banco in una società per azioni analoga alla Banca di Francia e crea il Banco delle Due Sicilie, destinato ad avere le stesse funzioni attraverso la Cassa di Corte e la Cassa dei Privati. Con i moti rivoluzionari del 1849 perde le agenzie siciliane che fondano il Banco dei Reali Domini di là dal Faro[4], futuro Banco di Sicilia.

Nuovi cambiamenti avvengono nel 1861 con l'Unità d'Italia, mutamenti che segnano la nascita della denominazione Banco di Napoli, banca che sarà preposta all'emissione della moneta del Regno d'Italia per 65 anni. Fra il 1873 e il 1893 il Banco fu membro del Consorzio obbligatorio tra gli istituti di emissione.

Nel tempo sono cambiate anche le sedi della banca che, dall'originaria sede del Monte di Pietà sita in via S. Biagio dei librai in pieno Centro storico di Napoli, a partire dal secolo XIX trova la sua finale collocazione nel nuovo Palazzo del Banco di Napoli in via Toledo. Si avvia l'espansione dell'istituto, con la creazione di una Cassa di risparmio, successivamente incorporata, e con l'apertura delle prime filiali fuori dall'area meridionale, in particolare a Firenze (1867), Roma (1871) e Milano (1872). Risale inoltre a questo periodo la creazione di una sezione di Credito Agrario, che ebbe primaria importanza nel finanziare lo sviluppo dell'agricoltura nell'Italia meridionale e la sua specializzazione nelle colture viticole ed agrumicole.

Un'altra svolta storica per l'istituto avviene nel 1901, quando viene avviata la prima attività all'estero: un ufficio a New York per agevolare le rimesse degli emigranti, trasformato in agenzia a tutti gli effetti nel 1909.

Dopo essere stato per molti anni anche istituto di emissione, il 6 maggio 1926, a seguito del passaggio della funzione alla Banca d'Italia, assume la qualifica di Istituto di credito di diritto pubblico e anche un maggior ruolo nello sviluppo del Mezzogiorno; in particolare dopo la crisi del 1929 assume un ruolo importante nel salvataggio delle diverse banche locali nel Sud Italia. Nel 1931, primo fra le banche italiane, si dota di un Ufficio Studi per seguire l'economia del proprio territorio creando anche una propria rivista, la Rassegna economica, ancora in essere e oggi gestita dall'Associazione Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, che ha ereditato il patrimonio informativo e di competenze del vecchio Ufficio studi. Lo status di Istituto di diritto pubblico viene mantenuto fino al 1991 quando, in osservanza della cosiddetta Legge Amato, viene trasformato in Società per azioni dando origine anche all'Istituto Banco di Napoli - Fondazione, a cui viene trasferito l'importante archivio storico che va dal XV secolo ad oggi.

Il decennio 1991-2002 è stato un periodo molto complesso per il Banco di Napoli, che ha attraversato una fase difficile, con sofferenze pesanti e conseguenti difficoltà finanziarie dovute principalmente alla commistione dei vertici con i poteri politici dell'epoca. La gestione di Ferdinando Ventriglia, basata su una sopravvalutazione delle attività e sottovalutazione delle passività, da spalmare in più esercizi per non dare al mercato segni di debolezza, si è rivelata fatale in quanto si inserisce in un periodo di grave crisi macroeconomica per il meridione, sfociato nell'anno "nero" del 1993. Lo stop degli interventi straordinari nel Mezzogiorno, richiedevano una gestione prudenziale, che evitasse una espansione cui non facesse seguito una pari solidità patrimoniale. Invece l'aumento degli impieghi, e della raccolta interbancaria (la più costosa) non è stata, nella prima metà degli anni '90, proporzionata alla massa patrimoniale. Ne conseguono indici di solvibilità ben al di sotto della normativa sulla vigilanza prudenziale (che prevede un rapporto tra attivo fruttifero e patrimonio netto che non deve scendere al di sotto dell'8%).

L'ispezione della Banca d'Italia durata 11 mesi e conclusasi nel dicembre del 1995 costituisce un duro atto d'accusa alla gestione Ventriglia, cui segue essenzialmente il ricambio di tutti i vertici della spa con nomina di Federico Pepe alla direzione generale e Carlo Pace (futuro deputato d'Alleanza Nazionale) alla presidenza. Minervini invece copre il ruolo di presidente della Fondazione Banco di Napoli (azionista di maggioranza del Banco di Napoli spa), egli ritiene che per superare la crisi un intervento del Tesoro sia necessario per attuare una giusta ricapitalizzazione del Banco, ma allo stesso tempo si batte strenuamente affinché venga riconosciuto il valore di avviamento della società così da evitare la completa esautorazione della Fondazione, che comporterebbe un azzeramento del Capitale Sociale e anche ingenti danni per gli azionisti di minoranza.

 

Il Tesoro, tramite il decreto-legge Dini, decreta una ricapitalizzazione pari a 2283 miliardi per il Banco, cui però fa necessariamente seguito l'azzeramento del Capitale Sociale e l'ingresso del Tesoro in qualità di azionista di maggioranza finché non si giunga alla privatizzazione anticipata al 1997 (prima prevista per il 1998). La Banca è stata acquistata per una cifra irrisoria (60 miliardi di Lire, circa 30 milioni di Euro) da parte della cordata composta dalla Banca Nazionale del Lavoro e dall'Istituto Nazionale delle Assicurazioni.

 

Dopo circa due anni di gestione ulteriormente penalizzante e dai risultati operativi estremamente deludenti, la cordata BNL/INA ha ceduto la Banca al gruppo Sanpaolo IMI, che ha acquistato la proprietà della Banca per una cifra vicina ai 6.000 miliardi di Lire, mutandone la denominazione in Sanpaolo Banco di Napoli S.p.A. e dotandola di un Capitale Sociale di 800.000.000 di Euro. Nel contempo la Bad bank (cosiddetta Sga: Società Gestione Attività, istituita ai sensi del decreto Sindona)[5], si pone come finalità recupero dei crediti in sofferenza, ha provveduto a rientrare di circa il 94% delle esposizioni che appena 6 anni prima avevano decretato la fine di uno dei più antichi e prestigiosi Istituti di Credito italiani (e accollandosi nei primi anni un totale di 6576 miliardi di perdite).

 

A seguito delle ultime operazioni societarie di fusione del Gruppo Sanpaolo IMI nel gruppo Intesa, avvenute nel 2006, al Sanpaolo Banco di Napoli è stato demandato il compito di presidiare le quattro regioni meridionali della Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, oltre all'agenzia presso Palazzo Montecitorio a Roma. L'8 giugno 2007, a seguito di una delibera dell'Assemblea dei soci, la Banca ha nuovamente assunto la denominazione di Banco di Napoli S.p.A.

 

Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Banco_di_Napoli

 


 

Parco del Poggio

 

Sulla collina di Capodimonte, il parco è un esempio di recupero di un'area di cava, sottratta alla nuova edificazione che ha modificato tra gli anni '60 e '70 l'aspetto della zona. Il Parco, di grande impatto panoramico, si estende su una superficie di 40.000 mq. Il percorso principale si snoda in leggero declivio passando accanto al laghetto alimentato da cascatelle e realizzato sul fondo della cava, conducendo ai punti panoramici sotto i pergolati. Il parco digrada ancora sui vari livelli terrazzati, coperti di ginestre ispaniche, di Medicago Arborea, e flora mediterranea (corbezzoli, olivi, fillirea, tamerici). Accanto ai pini e ai lecci che costituiscono l'ossatura principale del parco, si possono apprezzare i bambù e le strelizie affacciate sul lago. All'ingresso oltre all’area giochi vi è unpiccolo giardino botanico ad aiuole concentriche. 

 

orari

dalle 7.00 alle 18.00 dall’ 1 al 31 marzo, dalle 7.00 alle

19.30 dall’ 1 aprile al 30 giugno, dalle 7.00 alle 20.30 dall’ 1

luglio al 31 agosto, dalle 7.00 alle 19.00 dall’ 1 al 30

settembre, dalle 7.00 alle 18.00 dall’ 1 al 31 ottobre, dalle

7.00 alle 16.30 dall’ 1 novembre al 28 febbraio

mezzi di trasporto

metropolitana Linea 1 (stazione Colli Aminei) + autobus

ANM linea C66

ingressi

viale del Poggio di Capodimonte

attrezzature

aree di sosta, area gioco per bambini, area eventi, specchio

d’acqua, servizi per disabili, beverino, parcheggio esterno

 

 

Ospedale delle bambole

 

“Dunque, c’era una volta, più o meno alla fine del 1800, Luigi Grassi, scenografo dei teatri di corte e dei teatrini dei pupi. Luigi lavorava in via S. Biagio dei librai, stradina famosa e conosciuta fin dall’antichità come Spaccanapoli proprio perché spaccava a metà il cuore pulsante della città e che oggi è il nostro centro storico.

Il maestro non dipingeva solo scenografie, ma costruiva e riparava qualsiasi oggetto, compresi i pupi di scena.

Il suo laboratorio così strano attirava e incuriosiva lo sguardo di tutta la gente di passaggio. Un giorno una mamma entrò nella sua bottega con una bambola rotta tra le braccia e implorò l’artigiano di aggiustarla. Luigi, sorridendo sicuro nel camice bianco che indossava per non sporcarsi durante il lavoro, rassicurò la donna: la sua bambola sarebbe tornata come nuova. Così, trascorsa qualche settimana la signora ritornò nella bottega e vide la bambola completamente guarita: “Dottore grazie, la mia bambina sarà felicissima, le dirò che sono andata da un mago per far guarire la sua bambola del cuore”.Ben presto la voce si sparse, tante mamme cominciarono a recarsi in bottega per recuperare l’unica bambola della propria bambina e il laboratorio si riempì di ricordi da riparare.C’erano gambe, occhi e braccia che penzolavano dappertutto.Fu una persona del popolo che passando di lì esclamò: “Me pare proprio ‘o spitale de’ bambule” (Mi sembra proprio l’ospedale delle bambole).Che bella idea! Una tavoletta di legno, un pennarello rosso, una croce come quella degli ospedali veri… Ospedale delle Bambole.La bottega di Luigi Grassi aveva finalmente un’insegna, anche quella antica, artigianale, unica.Questa è la storia di un pezzo di Napoli, della mia famiglia, la mia storia.”

 

https://ospedaledellebambole.it/about-us/

 


 

Archivio di stato

 

Fu il regio decreto del 22 dicembre 1808 di Gioacchino Murat a prevedere la creazione a Napoli di un Archivio Generale del Regno, dove sarebbero state riunite in un medesimo luogo gli antichi documenti delle istituzioni esistenti fino all’arrivo dei francesi, avvenuto due anni prima. Nel 1835, Ferdinando II, dopo la soppressione napoleonica degli ordini monastici, stabilì il trasferimento di carte e documenti dell’Archivio del Regno custoditi a Castel Capuano, presso il monastero dei Santi Severino e Sossio nel frattempo progressivamente abbandonato dai monaci. 

Dopo la restaurazione borbonica, il nome fu cambiato in Grande Archivio del Regno e si stabilì il principio che dovessero esservi versate anche le carte più antiche delle amministrazioni vigenti, anche se gli atti dei ministeri non potevano essere consultati né copiati senza autorizzazione del ministro titolare. In seguito sono poi pervenuti i versamenti degli uffici statali della provincia di Napoli, quali la Prefettura, la Questura, l’Ufficio distrettuale delle imposte dirette con gli atti relativi al cosiddetto Catasto provvisorio di Napoli che, stabilito da Murat nel 1809, è rimasto in vigore fino al 1914.

L’Archivio non fu risparmiato dalla devastazione della guerra. Nel settembre del 1943 le truppe tedesche in ritirata, su ordine del comando della Wehrmacht, appiccarono il fuoco per rappresaglia nel deposito di sicurezza di villa Montesano nel Nolano, presso San Paolo Belsito, dove erano state trasportate le serie più preziose. Furono perduti, tra gli altri, i 378 volumi in pergamena che costituivano la Cancelleria angioina.

Riccardo Filangieri, Direttore dell’Archivio, dedicò gli ultimi anni della sua vita a ricostruire – da varie fonti, sia pur incomplete e spesso di mera indicizzazione – i contenuti dell’immenso patrimonio perduto.

La Sala Filangieri

Pochi passi per attraversare l’Atrio dei Marmi, iniziato nel 1598 e completato nel 1623, un chiostro ampio e pieno di luce, circondato da colonne di marmo di Carrara, uno dei pochi esempi di chiostro su colonne e non su pilastri di piperno, e accediamo alla Sala Filangieri, l’antico refettorio dei monaci. La sala è maestosa, ampia, le scaffalature tutt’intorno, l’odore dei libri, il peso della cultura, della storia custodita si respira ad ogni passo. Percorriamo la sala in tutta la sua lunghezza fino a trovarci al cospetto del grande affresco realizzato da Belisario Corenzio che rappresenta la moltiplicazione dei pani e dei pesci e l’allegoria della fondazione dell’ordine benedettino. E’ in questa sala che si coglie in pieno il valore altissimo di un archivio come questo, custode di un enorme patrimonio fatto di storie che si intrecciano come trame e orditi fino ad intessere la Grande Storia. 

La Sala Catasti

Lasciata la sala Filangieri accediamo alla sala dei Catasti, il Capitolo dei monaci. Colpisce la magnificenza delle decorazioni del soffitto affrescato da Belisario Corenzio. Sono raffigurate le virtù con i relativi simboli e scene della tradizione benedettina, un complesso ciclo cristologico. Le scene dipinte, di fatto visibili solo ai monaci, avevano un contenuto pedagogico, di ispirazione e insegnamento per chi sostava nelle sale. Anche in questo caso prosegue parallelamente l’aspetto artistico delle sale con la suggestione che viene dai documenti contenuti nelle scaffalature, in questo caso particolarmente interessanti come spaccato di vita economica e sociale dell’epoca. I documenti contenuti in questo splendido ambiente, infatti, raccontano la storia del cosiddetto catasto onciario, sezione della Regia Camera della Sommaria (l’istituzione che trattava sia gli affari amministrativi che le cause giudiziarie concernenti il fisco), ovvero il sistema di tassazione della proprietà e dell’industria nato sotto il regno di Carlo II di Borbone nel 1741. Si tratta di un patrimonio di 9.000 volumi relativi a tutte le Università (così si chiamavano le amministrazioni comunali dell’epoca) del Regno con l’eccezione di Napoli, i cui abitanti furono esentati dal pagamento della tassa catastale e quindi dall’obbligo di “formare” il catasto. In tutto il resto del Regno le Università furono tenute ad una serie di adempimenti per l’istituzione del catasto e la ripartizione dell’imposta, che variava a seconda della specie di possessori di beni. All’epoca di istituzione del catasto onciario, l’imposta principale era la gabella basata sui consumi e pertanto considerata iniqua in quanto non teneva conto della reale consistenza patrimoniale delle famiglie. Per questa ragione venne introdotto il catasto onciario che prevedeva una tassazione basata sulla effettiva ricchezza dei cittadini. Esso includeva una serie di documenti: gli atti preliminari, le rivele, gli apprezzi e l’onciario vero e proprio. La rivela è una vera e propria autodichiarazione del capofamiglia che “rivelava” le sue generalità, la residenza, le proprietà possedute, lo stato civile, la professione. Sulla base del contenuto delle rivele venivano redatti gli apprezzi da parte dei pubblici ufficiali preposti a verificare la veridicità delle informazioni “rivelate”. Dal confronto di rivele e apprezzi, nasceva l’onciario, con la quantificazione in oncie (antica moneta in uso nel Regno di Napoli fino all’epoca dei re aragonesi) dell’imposta dovuta, calcolata in base alla classe di appartenenza dei residenti, divisi in cittadini, comprese vedove e vergini, cittadini ecclesiastici, chiese e luoghi pii del paese, bonatenenti (possessori di beni) non residenti, ecclesiastici bonatenenti, chiese e luoghi pii forestieri.

Si tratta di un patrimonio di inestimabile valore, testimonianza preziosa della storia economica e sociale di tutti gli attuali Comuni dell’Italia meridionale alla metà del Settecento.

Concludiamo il nostro viaggio nella storia e nella memoria attraversando il chiostro del Platano, così detto per il platano che, secondo la leggenda, vi fu piantato da San Benedetto. Tutt’intorno il bellissimo ciclo di  affreschi rinascimentali, realizzati da Antonio Solario detto «lo Zingaro», che raccontano episodi della vita del Santo e  i suoi miracoli, accompagnando ieri i monaci nelle loro meditazioni e oggi il visitatore che ne rimane affascinato e rapito.

 

Flickr

 


 

Donna Marianna ‘a Cap ‘ ‘e Napule

 

Entrando nello storico Palazzo San Giacomo a che affaccia a Piazza del Municipio  ( attualmente sede degli uffici comunali e della Stanza del Sindaco e della relativa Giunta del Comune di Napoli), tra le due rampe di scala che portano ai piani superiori , si scorge su un piedistallo  una testa di epoca greca, da sempre considerata raffigurante Partenope,  che è diventata l’emblema della città. La famosa “ erma della Sirena Partenope, che è stata definita a furore di popolo

“ Donna Marianna ‘a Cap’  ‘ e Napule”

La Statua rappresenta un capo, cinto da un’acconciatura arcaica dei capelli, tipica dello stile dei caratteri stilistici di una classica scultura tardo-ellenistica.

 Fu rinvenuta all’incirca nel 1594 - anno in cui secondo alcuni studiosi nella zona dell'Anticaglia, (nel decumano superiore prevalentemente greco della città) e si affermò, da quel momento, che fosse il busto marmoreo  di quanto rimaneva di un'antica statua raffigurante Partenope..

La statua, durante la rivolta di Masaniello, era collocata nelle vicinanze di Piazza mercato e  subì alcune mutilazione, dal popolo in rivolta e  fu deturpata gli  fu staccato il naso e poi oltraggiata dalle soldataglie spagnole inferocite, che si scagliarono contro i rivoltosi,  contro la città ed i suoi simboli. 

Venne predisposto dalle autorità dell’epoca, agli inizi del XVII secolo il restauro e gli venne rifatto il naso, ma il nuovo look non gli rese giustizia, perchè l'intervento fu eseguito con pesanti intonacature e verniciature rozze; per sua fortuna  col passare del tempo questo suo nuovo,   rimaneggiato stato, svanì  e si dovette ricorrere a mani più esperte.

Nei secoli successivi  il naso fu ricostruito a regola d’arte  si ebbe nel 1879 ad opera di  un anonimo cittadino, un certo Alessandro di Miele; che a lei molto affezionato, e cosi la statua marmorea tornò ad avere il suo antico volto, come lo si conosce ora, acquistando la sua originale fisionomia.

I guai non erano finiti, perché durante il secondo conflitto mondiale la zona della Marina e le vicine strutture portuali, ( dove erano stata ubicata dopo il restauro, esattamente a pochi metri dalla Chiesa di San Giovanni a Mare nelle prossimità di piazza Mercato, più precisamente all'incrocio tra via Sant'Eligio e via Duca di San Donato , costituirono un importante obiettivo per i bombardieri, che sganciavano sulla città il loro carico di morte e distruzione. Destino atroce: l'antica statua pagò la sua secolare vicinanza alla nevralgica zona del porto subendo altri danneggiamenti a causa degli scoppi e dei crolli.. Finalmente nel 1961  la statua di  "Donna Marianna" entrò a far parte della Collezione del Museo Filangieri. Dopo poco fu trasferita a Palazzo San Giacomo, dove si trova attualmente, mentre il 24 giugno 2003, sull'entrata della Chiesa di San Giovanni a Mare,  fu posta una copia dell'originale, cosi "Donna Marianna" torna  al suo antico quartiere.

. Il suo nome Donna Marianna sicuramente le fu imposto, (si può ipotizzare che le   fu  attribuito durante la repubblica napoletana del 1799), come somiglianza dell’altra più nota Repubblica, quella Francese, nata dalla rivoluzione popolare parigina, e dove  con il nome di “  Marianne “

fu battezzato il simbolo femminile  di tale nuova repubblica. 

 

 


 

Antonio Toscano a Vigliena

 

Sul pianerottolo che conduce alla sala che ospita la collezione Jerace nel castello del Maschio Angioino di Napoli, troneggia questo monumento dedicato a un protagonista della rivoluzione napoletana del 1799, morto per aver fatto saltare il forte di Vigliena, assediato dalle truppe del cardinale Ruffo.

Opera fortemente espressionistica, è tipica dell'arte di Jerace.

A questo link un interessante studio sul pittore

 

 


 

 L’OROLOGIO DEL TEATRO SAN CARLO 

 

 Il Teatro San Carlo è uno dei più antichi teatri operanti in Europa, e senza dubbio uno dei più famosi al Mondo. I suoi colori originalmente non erano il rosso e l’oro, ma l’azzurro e l’argento dello stemma che sormonta l’arcoscenico. Ogni suo particolare ne nasconde uno nuovo;

pensate all’orologio che si trova sotto l’arco del proscenio. 

 

Esso ha in se una caratteristica poco nota ai nostri occhi. A girare non è la lancetta, ma il quadrante. Infatti, se guardate bene il braccio destro della figura alata, rimane fermo.

 

La leggenda racconta che la sirena, in basso a sinistra dell’orologio, invita il tempo a far scorrere più lentamente le ore in modo da poter godere il piacere delle arti, indicandogli le tre Muse alla sua sinistra: la Poesia, la Musica e la Danza. La corona dell’orologio, invece, è una sorta di zodiaco con le cifre orarie che ruota intorno al dito del Tempo

 


 

IL FONDO AOSTA DELLA BIBLIOTECA NAZIONALE

 

Il Fondo Aosta, donato alla Biblioteca Nazionale di Napoli nel 1947 da S.A.R. Elena d'Orléans, duchessa d'Aosta, è espressione delle correnti letterarie, politiche, culturali europee della seconda metà del XIX e della prima metà del XX secolo. E' costituito non solo dalla Raccolta libraria, ricca di oltre 11.000 volumi ed opuscoli, ma anche dalla straordinaria Raccolta africana e da una notevole Raccolta fotografica; nelle Sale Manoscritti sono custoditi un piccolo nucleo di Manoscritti, orientali e spagnoli, ed un centinaio di Carte geografiche, le più numerose relative al Mondo Antico e all'Africa.

Dette raccolte si trovavano nella Reggia di Capodimonte, residenza dei Duchi di Savoia - Aosta e dei figli, da quando Emanuele Filiberto aveva assunto il comando del X Corpo d'Armata di Napoli; alla BNN sono pervenute anche le belle librerie in legno di abete, i mobili e agli arredi della biblioteca privata di Elena d'Aosta insieme alla straordinaria raccolta di cimeli e trofei di caccia.

 

Raccolta libraria

Nei suoi appartamenti privati a Capodimonte, Elena d'Aosta aveva raccolto una cospicua biblioteca, suddivisa in più sale: nella prima, opere di varie materie, dalla storia alle scienze sociali, dalla letteratura alle scienze applicate, dalla geografia all'arte ed un gruppo di pubblicazioni periodiche italiane e straniere; qui la Duchessa d'Aosta volle raccogliere anche i libri appartenuti al figlio Amedeo, mitico eroe dell'Amba Alagi, morto nel 1942; un secondo settore è costituito dalle opere più antiche, dei secoli XVI, XVII e XVIII, soprattutto di storia e di viaggi, e da un piccolo nucleo di opere su Napoli; ai romanzi francesi è dedicata un'altra sala, in cui sono anche collocati testi di letteratura per ragazzi e di musica; infine 1000 volumi, prevalentemente in lingua francese ed inglese, relativi all'Africa, a cacce africane, a viaggi.

Altri due fondi librari, la "Collezione Coloniale" e la "Raccolta Riggio", sono stati successivamente acquisiti dalla BNN per incrementare il nucleo africano.

 

Sala Africa

I libri della "Sala Africa" sono circondati da animali tassidermizzati e trofei di caccia, ma anche da idoli, gong, oggetti dell'artigianato indigeno, asce, pugnali, lance, fucili e da una bella raccolta di minerali. La presenza di una grande lastra con un'iscrizione rupestre, proveniente dal Sahara algerino, rende ancor più straordinaria questa raccolta, nella quale sono da segnalare anche numerosi reperti preistorici del popolo Inca, custoditi in una cassetta di legno, donata alla Duchessa d'Aosta dal Console di Bolivia.

 

Raccolta fotografica

La raccolta fotografica è costituita da 9800 foto, databili tra il 1890 ed il 1930, di alcune delle quali si conservano i negativi su lastra; numerose fotografie sono racchiuse in cornice e sono relative a reportage di safari e di viaggi, altre, raccolte in bellissimi album, sono relative a momenti di vita privata della famiglia, ma anche all'attività umanitaria svolta dalla Duchessa in favore della CRI; altre foto, in serie sciolte, sono state raccolte in faldoni.

 


CENTRO

DIVERTITEVI AD INDOVINARE DOVE

 


 

IL GIORNALE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE E' MOLTO POCO PROVINCIALE

 

Strano Regno quello delle Due Sicilie che, anche per l'indolenza dei suoi Re, è morto. Strano perchè INTERNAZIONALE ma, al tempo stesso, "chiuso" dentro una Capitale fatta di tante cose...ALLORA COME OGGI ! Gli Zulù che vennero a depredarlo - CON IL CONSENSO dei Meridionali, ha ragione il professore Capasso - venivano da Regnetti e merdine centro-nordiste che erano importanti per fatti dinastici (matrimoni, eredità ecc) non certo per stretti rapporti con lo Scacchiere Internazionale del tempo. Scorrete il Giornale che, in pdf, vi posto in basso e che si trova free on line in Google Book e non solo...sfogliatelo...non dico leggetelo. E vi accorgerete che il Re Borbone aveva contatti GIORNALIERI - come ogni Potente in Politica - con tutto il Gotha Europeo ed il gran mondo. Sembra di sentire Daverio quando dice che Napoli , da GRANDE CAPITALE, dovette adattarsi

al ruolo di città arretrata africana per bocca di Zulù.

 

 

Download
giornale-del-regno.pdf
Documento Adobe Acrobat 2.4 MB

 

FORCELLA

( a me m'hanno scippato due volte: una volta a Milano, un'altra a Parigi !!! )

 

A Napoli, la storia di Forcella, o come la chiamano i napoletani Furcella, è molto antica. A riprova di ciò in piazza Calenda, davanti al Teatro Trianon Viviani, si erge il cosi detto cippo a Forcella una struttura circolare di pietra dell’antica Neapolis (molto probabilmente i resti della porta Herculanensis); da qui l’espressione napoletana “sta’ cosa s’arricorda o’ cipp’ a Furcella”, per dire che è molto vecchia.

 

Il quartiere Forcella, stretto tra via Duomo, Corso Umberto I e la famosa Spaccanapoli, è un vero e proprio mondo, con una storia sviluppatasi quasi in maniera a se stante; gli edifici sono sgarrupati e tutto sembra lasciato a se stesso, eppure il quartiere non ha dimenticato che prima che gli Spagnoli, nel 1510, cacciassero tutti gli ebrei dal loro regno, Forcella era una delle tre giudecche di Napoli.

Fu proprio qui, ad esempio, che gli Orsini, i Carafa, i Caracciolo e la stessa regina Giovanna II vantavano splendide dimore, qui si celebravano i Sebastà (i giochi isolimpici in onore di Augusto), qui si trovavano i templi dedicati ad Ercole e ad Asclepio. Qui troviamo Castel Capuano (ex-sede del Tribunale), il teatro Trianon, il secolare ospedale Ascalesi, il Caravaggio più bello del mondo al Pio Monte della Misericordia, il Museo del tesoro di San Gennaro e la stessa Cattedrale.

 

Qui venne costruita la Real Casa dell’Annunziata (voluta dalla Regina Giovanna I) il primo centro di assistenza e cura per i bambini abbandonati. Napoli ha un legame indissolubile con questo luogo, perché da qui nasce il cognome più diffuso nel capoluogo partenopeo, ovvero Esposito. Su via dell’Annunziata, a sinistra dell’arco cinquecentesco d’ingresso, è ancora visibile – benché oggi chiuso – il pertugio attraverso il quale venivano introdotti nella ruota gli esposti, cioè i neonati che le madri abbandonavano,

per miseria o perché illegittimi.

 

Tra le varie chiese presenti nel quartiere (San Giorgio Maggiore, Sant’Agrippino, Sant’Agostino alla Zecca,…) Santa Maria Egiziaca a Forcella (Corso Umberto I, 208) è uno degli esempi meglio riusciti dell’architettura barocca napoletana con le opere di importanti artisti tra cui Luca Giordano. L’edificio con annesso monastero fu fondato nel 1342 grazie al volere della regina Sancha d’Aragona, che volle una struttura che accogliesse le prostitute pentite.

Una visita al mercato di Forcella (via Pasquale Stanislao Mancini),

uno dei ritrovi storici per lo shopping low cost della città.

 

Forcella è forse uno dei quartieri che vanta le pizzerie più conosciute come l’Antica Pizzeria da Michele (via Cesare Sersale), un mito per chiunque arrivi a Napoli e la pizzeria Trianon da Ciro (Via Pietro Colletta, 44/46), una istituzione a Napoli. Mentre in via Giudecca Vecchia

c’è l’Antica Pizzeria le Figliole che è il tempio della pizza fritta.

 

Curiosità – Il nome di questo quartiere alcuni lo associano alla forma che via Forcella assume all’incrocio con via Giudecca Vecchia, formando appunto una “forcella”. Altra ipotesi invece è legata alla scuola di Pitagora che dal XIII al XIX secolo ebbe la sua sede nel quartiere, e che come emblema aveva proprio una Y, utilizzata poi anche nello stemma del seggio: l’istituzione amministrative pre formazione dei Municipi.


 

PER DISINTOSSICARSI DALL'UNITA' D'ITALIA

Isa Danieli in FERDINANDO di Annibale Ruccello

 


 

LA STRAGE DI PIETRARSA: UNO DEI FURTI & DELLE STRAGI DEL NORD

 

Era il 6 agosto 1863. Sembrano anni lontanissimi eppure molto vicini a noi. Nessuno, o forse pochi, ricordano il secondo “primo maggio” della storia dell’Italia da poco unita. 152 anni fa un tragico evento scosse Pietrarsa, località situata tra Portici, San Giorgio a Cremano e il quartiere napoletano di San Giovanni a Teduccio. All’epoca, Pietrarsa era conosciuta da tutti per il Real Opificio Borbonico, voluto, appunto, da Ferdinando II di Borbone nel 1830 e passato alla proprietà di Jacopo Bozza qualche anno più tardi. Quest’ultimo, aveva dimezzato gli stipendi e tagliato progressivamente il personale,

mettendo in ginocchio la produzione.

Il 23 giugno del 1863, con la promessa di reintegrare tutti gli operai licenziati, Bozza mette fine alle proteste del personale. In realtà le sue intenzioni erano tutt’altro che positive: l’idea era quella di elargire soltanto metà dello stipendio con il solo fine di attenuare l’ira degli operai. Una sorta di moderna cassa integrazione. La tensione si fece sempre più alta: i 458 operai in servizio era minacciati dal licenziamento e pagati con ritardo. Sui muri di Pietrarsa, comparvero i primi manifesti di protesta: «Muovetevi, artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria».

Il 6 agosto 1863 la situazione precipitò: alle due del pomeriggio, il capo contabile dell’azienda Zimmermann, chiese al delegato di polizia di Portici l’invio di almeno sei agenti, per controllare gli operai in sciopero per ottenere lo stipendio. La risposta erano stati altri 60 licenziamenti. Al primo allarme, ne seguì un secondo, più drammatico: «Non bastano sei uomini, occorre un battaglione di truppa regolare». Al suono convenuto di una campana, tutti gli operai, di ogni officina dello stabilimento, si erano riuniti nel gran piazzale dell’opificio. La polizia non bastava ad evitare il pericolo di incidenti

e, per questo, furono allertati i bersaglieri.

L’obiettivo era circondare l’opificio, ma ai cancelli trovarono gli operai. La reazione fu assai violenta: una carica alla baionetta e poi spari alla schiena sui fuggitivi. Le forze dell’ordine parlano di soli due morti e di sei feriti trasportati all’ospedale ma il bilancio ufficiale fu di quattro morti: Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso, Aniello Olivieri. I feriti, ricoverati all’ospedale Pellegrini di Napoli, furono invece dieci: Aniello De Luca, Giuseppe Caliberti, Domenico Citara, Leopoldo Alti, Alfonso Miranda, Salvatore Calamazzo, Mariano Castiglione, Antonio Coppola, Ferdinando Lotti, Vincenzo Simonetti.

Tutto è riportato nell’Archivio di Stato di Napoli. A quei tempi, la vergogna per l’accaduto era troppa ed è per questo che la vicenda, per quanto tragica fosse stata, fu “ridimensionata” dagli uomini di Stato e dai giornali. Si parlò di “fatali e irresistibili circostanze”

avvenute per mano di “provocatori” e “mestatori borbonici”. 

Nel 1875, gli operai di Pietrarsa furono ridotti a 100, due anni dopo lo stabilimento fu affidato in fitto per 20 anni alla Società nazionale per le industrie meccaniche. Fino al 1885, vennero realizzate 110 locomotive, 845 carri, 280 vetture ferroviarie, caldaie e vapore e altro materiale ed eseguite 77 riparazioni. Nel 1905 lo Stato si riprese la gestione diretta di Pietrarsa.

 

Santa Maria della Sapienza

 

La chiesa fu costruita grazie ad un progetto di Francesco Grimaldi, nel 1625, ma, i lavori furono portati avanti da Giacomo Di Conforto. Quest'ultimo terminò il suo lavoro nel 1630,

lasciando la direzione del cantiere all'ingegnere Orazio Gisolfo.

Fu in questo periodo che lavorarono anche numerosi altri architetti, tra cui Cosimo Fanzago e Dionisio Lazzari, che si occuparono della facciata del tempio. Come riportano molte fonti dell'epoca, il progetto vero e proprio dell'esterno è da attribuire al Fanzago, mentre, del Lazzari sono gli abbellimenti in marmo bianco. Tuttavia, circa la progettazione della facciata,

ricordiamo che altre fonti fanno invece riferimento a Giovan Giacomo Di Conforto.

Tra il 1634 e il 1636, si inaugurarono i lavori per la costruzione della cupola e del campanile. Giacomo Lazzari contribuì alla realizzazione della cupola, con la creazione di un laternino,

affrescato da Belisario Corenzio.

Il monastero che era annesso alla chiesa fu demolito alla fine del XIX secolo per lasciar posto alla costruzione del Policlinico che si erge alle spalle della struttura.

L'interno, a navata unica con cappelle laterali, è decorato con marmi policromi di Dionisio Lazzari ed aiuti. Del Lazzari sono anche altre parti della chiesa: si occuperà del pavimento, in marmo bianco e ardesia, molto simile a quello già esistente nella chiesa di San Gregorio Armeno. Sempre di quest'ultimo artista e aiuti è il coro delle monache, composto da quadretti di marmo bianco ed ottangoli di ardesia.

Gli affreschi nella volta e nell'abside sono di Cesare Fracanzano, mentre, sul timpano del fondale settecentesco, vi sono due angeli di Paolo Benaglia. Quasi tutte le opere d'arte mobili sono scampate ai furti, in quanto opportunamente trasferite in altre sedi.

La struttura della chiesa contiene, inoltre, un altro tempio: la Cappella della Scala Santa.

 


 

VIA DUOMO: LA VIA DEI MUSEI 

I poli museali della zona che potrebbero associarsi sono il Museo Civico “Gaetano Filangieri”, il Complesso Monumentale di San Severo al Pendino, il Pio Monte della Misericordia, il Monumento Nazionale dei Girolamini, il Museo del Tesoro di San Gennaro, il Complesso Monumentale Donnaregina e Museo Diocesano e il Madre il Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina.

In base alla loro collaborazione via Duomo potrebbe venir chiamata la “Via dei Musei”. La collaborazione tra questi poli culturali cittadini potrebbe portare alla creazione di pacchetti turistici costruiti su misura e di un sito internet dedicato. Il sito sarebbe fondamentale per il rilancio di luoghi culturali preziosi e pieni di capolavori artistici dal grande valore storico e culturale. Si parla anche di riduzioni sul biglietto d’ingresso degli altri musei visitandone uno a pagamento.

La sinergia tra questi importanti luoghi di cultura porterebbe alla creazione di un percorso dal nome collettivo di “Via dei Musei” e alla valorizzazione e diffusione della conoscenza dei sette musei.

I Musei della zona sono molto diversi tra loro ma ognuno ha importanti “attrazioni” culturali al suo interno.

Museo Civico Gaetano Filangieri

museo filangieri

Presenta una grande collezione di armature di numismatica, ed ha un ricco archivio nello splendido Palazzo Como un palazzo del 400 smontato e ricostruito;Maggiori dettagli

Pio Monte della Misericordia

Chiesa del Pio Monte della Misericordia

Conserva uno dei dipinti più famosi del Seicento Le Sette opere della Misericordia di Caravaggio oltre ad altri bellissime opere di autori famosi;Maggiori dettagli

Monumento Nazionale dei  Girolamini

biblioteca dei girolamini

Uno splendido complesso monumentale con chiostri, chiesa annessa, una ricca quadreria con opere eccezionali e la  bellissima e monumentale biblioteca. Maggiori dettagli

Museo del Tesoro di San Gennaro

tesoro di san Gennaro

Il museo del Tesoro di San Gennaro conserva uno dei tesori più ricchi e importanti al mondo pari a quello della Corona d’Inghilterra o degli zar di Russia. Maggiori dettagli 

Complesso Monumentale di Donnaregina

museo donnaregina

Due magnifiche chiese divenute un ricco contenitore di grandi opere d’arte che offre un affascinante viaggio tra gotico e barocco;Maggiori Dettagli:

Museo Madre

Settembre 2015 al MADRE gratis

Ha la più interessante collezione d’arte contemporanea della città e presenta sempre mostre di arte contemporanea;Maggiori dettagli

Complesso Monumentale di San Severo al Pendino

 

Fu edificato nel 1575 sull’antica chiesa con ospedale di Santa Maria a Selice ed ora è sede di importanti mostre ed esposizioni

GRAZIE A: https://www.napolidavivere.it/2016/04/03/a-via-duomo-la-via-dei-musei-con-7-musei-associati/


 

Alexander John Ellis 

Pompeii, The Forum from the Southern extremity. In the distance [scarcely visible] Vesuvius 

1841, 12 May 

 

Storia degli scavi archeologici di Pompei

 

La storia degli scavi archeologici di Pompei comincia nel 1748 sotto Carlo III di Spagna[1] per protrarsi fino ai giorni nostri: questa colossale opera archeologica, in oltre due secoli, ha permesso di riportare alla luce l'antica città di Pompei, seppellita dall'eruzione del 79 del Vesuvio, insieme ad Ercolano, Stabiae ed Oplontis[2].

 

Già poco dopo l'eruzione l'Imperatore romano Alessandro Severo diede ordine di scavare nella zona dove sorgeva l'antica Pompei, ma a causa della fitta coltre di ceneri e lapilli, l'esperimento si esaurì poco dopo[3]. Nel 1553 il conte di Sarno, Muzio Tuttavilla, acquistò il feudo di Torre Annunziata e per poter alimentare i mulini del luogo, decise la costruizione di un canale sfruttando le acque del fiume Sarno: i lavori furono commissionati all architetto Domenico Fontana e iniziarono nel 1592[4]. Tra il 1594 ed il 1600, durante la costruzione del canale del Conte, furono rinvenuti monete e resti di edifici: tuttavia non fu compreso che si trattava dell'antica città romana, e dopo il terremoto del 1631 tutto fu nuovamente abbandonato[3].

A seguito del ritrovamento dell'antica Ercolano e dei suoi reperti, la dinastia borbonica voleva accrescere il proprio patrimonio artistico con l'intento di dare maggiore prestigio alla casa reale[1]: fu così che il 23 marzo 1748 l'ingegnere Roque Joaquín de Alcubierre, con l'aiuto dell'abate Giacomo Martorelli e degli ingegneri Karl Jakob Weber e Francisco la Vega, questi ultimi due con il compito di curare i giornali di scavo, aprì un primo cantiere nella zona di Civita, presso l'incrocio di una strada che da un lato portava nell'attuale Castellammare di Stabia, dall'altro a Nola[5]. Furono ritrovati monete, statue, affreschi e uno scheletro, ma furono anche individuate una parte dell'anfiteatro e la necropoli di Porta Ercolano: de Alcubierre credeva che si trattasse dell'antica Stabiae. Tuttavia la mancanza di ritrovamenti di oggetti di valore, fece spostare l'attenzione nuovamente su Ercolano ed il cantiere fu chiuso[5]: durante gli scavi di questo primo periodo, dopo l'esplorazione e la raccolta di reperti, le costruzioni venivano nuovamente sepolte e le modalità d'indagine erano molto approssimative, tant'è che quando le pitture non venivano considerate adatte, i muri degli edifici che le contenevano venivano distrutti[6]. Gli scavi a Pompei ripresero nel 1754, grazie anche all'entusiasmo prodotto dal ritrovamento della Villa dei Papiri ad Ercolano e riguardarono per lo più diverse zone già individuate negli anni precedenti come la Villa di Giulia Felice e la Villa di Cicerone nei pressi di Porta Ercolano; nel 1759, con la creazione da parte di Carlo di Borbone, dell'Accademia Ercolanese[6], si iniziò a registrare e descrivere i vari ritrovamenti che venivano effettuati nella zona vesuviana. Nel 1763, grazie all'individuazione di un'epigrafe di Titus Suedius Clemens, dov'era nominata la Res Publica Pompeianorum, si poterono associare i ritrovamenti archeologici a Pompei e non a Stabiae[5].

 

Con la salita al potere di Ferdinando I delle Due Sicilie, ma soprattutto per volere della moglie Maria Carolina, nel periodo compreso tra il 1759 e 1799 fu riportata alla luce parte della città, questa volta non più riseppellita ma rimasta a vista, grazie anche a un sistema di scavo sistematico, voluto dal direttore Francisco la Vega, il quale preferiva che i reperti, soprattutto gli affreschi parietali, rimanessero ai muri e non asportati per essere trasporti al museo nella Reggia di Portici, trasferiti poi, a partire dall'inizio del XIX secolo, al Real Museo di Napoli[7]: tra il 1764 ed il 1766 fu riportata alla luce parte della zona dei teatri, del tempio di Iside e del Foro Triangolare; tra il 1760 ed il 1772 l'attenzione si spostò nella zona nord-occidentale della città, con le esplorazioni della Villa di Diomede, della Casa del Chirurgo e della Via dei Sepolcri, dove furono rinvenuti, oltre a monete di oro ed argento, anche diciotto corpi, morti a causa dell'eruzione[5]. Durante gli scavi del XVIII secolo furono prodotti una grande quantità di documenti: la maggior parte erano delle semplici liste che riportavano tutti i reperti recuperati, mentre alcune opere di ordine descrittivo contribuirono a far conoscere Pompei ed Ercolano in tutta Europa[8].

 

Nel 1787 giunse a Pompei Johann Wolfgang von Goethe, che così descrive le rovine della città:

 

«Con la sua piccolezza e angustia di spazio, Pompei è una sorpresa per qualunque visitatore: strade strette ma diritte e fiancheggiate da marciapiedi, cassette senza finestre, stanze riceventi luce dai cortili e dai loggiati attraverso le porte che vi si aprono; gli stessi pubblici edifici, la panchina presso la porta della città, il tempio e una villa nelle vicinanze, simili più a modellini e a case di bambola che a vere case. Ma tutto, stanze, corridoi, loggiati, è dipinto nei più vivaci colori: le pareti sono monocrome e hanno al centro una pittura eseguita alla perfezione, oggi però quasi sempre asportata; agli angoli e alle estremità, lievi e leggiadri arabeschi, da cui si svolgono graziose figure di bimbi e di ninfe, mentre in altri punti degli animali domestici sbucano da grandi viluppi di fiori.»

 

(Johann Wolfgang von Goethe, Viaggio in Italia)

XIX secolo

 

Nel 1798 Ferdinando IV voleva scacciare i Francesi da Roma, ma dopo essere stato sconfitto, questi marciarono verso Napoli ed il re fu costretto a scappare: fu così fondata la Repubblica Napoletana; in questo periodo, il generale Jean Étienne Championnet diede ordine di continuare l'opera di scavo a Pompei, concentrandosi soprattutto nell'area meridionale[9]. L'anno seguente i Francesi abbandonarono Napoli ma Ferdinando IV tornerà però solo nel 1802: in questo lasso di tempo, sia per problemi di ordine politico, ma soprattutto finanziario, tutte le attività di scavo vennero sospese. Un nuovo impulso fu dato dall'arrivo di Giuseppe Bonaparte nel 1806, che insieme al ministro Antoine Christophe Saliceti gestiva un organico di circa cinquecento operai: inoltre con l'aiuto del direttore del museo di Portici, Michele Arditi, iniziarono i primi espropri di case dall'area archeologica, per evitare che cittadini privati potessero effettuare scavi a proprie spese impossessandosi dei reperti ritrovati, furono aumentati i sorveglianti, regolamentate le visite e si evitarono scavi isolati, concentrandosi su determinate zone, in particolare nei pressi di Porta Ercolano, dove fu scoperta la Casa di Sallustio[9]. A seguito della partenza di Bonaparte per la Spagna, nel 1808, il regno di Napoli fu affidato a Gioacchino Murat, la cui moglie Carolina Bonaparte era una appassionata di archeologia: fu infatti la donna che prese il controllo delle indagini ed incoraggiava gli operai, che nel frattempo erano saliti a 624, oltre a circa 1.500 zappatori[6], con continue ricompense economiche; ciò nonostante, la scelta di uomini estranei al sapere archeologico provocò non pochi malumori tra gli addetti, come ricordato all'architetto François Mazois:

Sotto la regina Carolina venne individuata la cinta muraria della città e fu per lo più scavata la zona dei teatri e del foro, oltre a diverse insulae adiacenti alla zona di Porta Ercolano[9]: a tale periodo risale la scoperta della Casa di Pensa e della Basilica. Sempre su ordine di Carolina furono pubblicate numerose guide che riportavano la planimetria delle scoperte di Pompei ed inviate poi in tutta Europa, facendo diventare il luogo tappa obbligata del Grand Tour[3]: grazie a queste pubblicazioni, Charles François Mazois, venuto a conoscenza degli scavi vesuviani, lavorò a Pompei tra il 1809 ed il 1813 editando poi Les ruines de Pompéi[6], la maggiore opera di epoca borbonica riguardante gli scavi; divisa in quattro sezioni, la prima parte del testo descriveva la rete viaria, tombe, porte e mura, la seconda fontane e case, la terza gli edifici pubblici e la quarta teatri, templi e l'urbanistica[11].

Il ritorno della dinastia borbonica segnò un nuovo periodo di stasi, soprattutto sotto Ferdinando I, il quale vendette nuovamente parte dei terreni espropriati a privati e ridusse il numero di operai a sole tredici unità: venne comunque recuperato l'intero foro[12]. Con la salita al trono di Francesco I, tra il 1820 e 1830, si assistette ad una nuova ripresa degli scavi, in particolar modo nella zona di Via Mercurio e della regio IV, dove furono trovate numerose abitazioni di notevole interesse architettonico: nel 1830 venne scoperta la Casa del Fauno, con il grosso mosaico dedicato ad Alessandro Magno. Con Ferdinando II prima, e Francesco II poi, l'interesse per l'area archeologica di Pompei andò nuovamente scemando ed i due utilizzarono il sito solo come una sorta di museo per i loro ospiti: fu visitato da Alexandre Dumas nel 1835, papa Pio IX nel 1849 e Massimiliano II di Baviera nel 1851[12]. Vengono riportate alle luce nel 1845 le aree circostanti di Via dell'Abbondanza e recuperate Via Stabiana, Via della Fortuna e Via di Nola; si assiste inoltre ad un primo parziale restauro delle strutture già esplorate, come quelle delle Terme del Foro e delle Terme Stabiane[13]. Altro evento importante fu nel 1840 la costruzione della linea ferroviaria da Napoli verso Nocera, con la stazione nei pressi di Porta Marina, che permetteva un più facile raggiungimento del sito da parte di un maggior numero di persone[12]. Oltre alle normali pubblicazioni, in questo periodo prende il via una nuova forma di documentazione, ossia quella fotografica, anche se utilizzata per scopi turistici, piuttosto che di studio e restauro: risale al 1851 la prima serie completa di fotografie su Pompei, realizzate dall'architetto Alfred Nicolas Normand[14]. Dal 1854 cominciarono inoltre una serie di pubblicazioni intitolate Le case e i monumenti di Pompei disegnati e descritti con tavole a colori, che aumentarono notevolmente la fama di Pompei in Europa[15].

Con l'unità d'Italia ci fu un repentino cambiamento nelle opere di scavo: la direzione fu affidata a Giuseppe Fiorelli, che potendo disporre anche di un maggior supporto economico, iniziò lo scavo integrale di diverse insulae e concluse quello di alcune già parzialmente esplorate, come nei pressi di Via Stabiana e delle porte Stabia e Marina[16]; proprio a Fiorelli si deve la prima ordinata opera di scavo, con la divisione della città in insulae e regiones[17]. Nel 1863 fu introdotta la tecnica dei calchi, ossia si intuì che riempiendo con gesso le tracce lasciate dalla decomposizione dei materiali organici, si poteva risalire a persone, piante e oggetti della vita romana[17]. Tra il 1870 ed il 1885 fu redatta la prima mappa dell'intera area pompeiana, opera di Giacomo Tascone, costantemente aggiornata ed al contempo fu creato il plastico 1:100, oggi conservato al museo archeologico nazionale di Napoli, che riproduceva l'intera area degli scavi[14]. Nel 1875 il complesso delle rovine di Pompei passò nelle mani della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti del Regno, che affidò l'opera di esplorazione a Michele Ruggero, il quale proseguì la campagna di scavo lungo la Via di Nola, portando alla luce la Casa delle Nozze d'Argento, ricostruendo la sala corinzia e l'atrio[16]: non fu l'unico esempio di ricostruzione, in quanto anche in altre strutture furono rifatti i tetti e ricostruite le mura, soprattutto per preservare gli affreschi che sempre più spesso venivano conservati al loro interno piuttosto che asportarti; furono inoltre rinvenute, nella parte sud della città, alcune case a terrazza. Sempre in questo periodo ci fu il ritrovamento della statua del Satiro e dell'affresco di Bacco ed il Vesuvio nella Casa del Centanario e delle tavolette cerate, ossia dei documenti sulla contabilità, nella casa di Lucio Cecilio Giocondo, decifrate poi da Giulio De Petra[16]. Nel 1878 furono operate le prime ricerche per l'individuazione della linea di costa prima dell'eruzione del Vesuvio del 79, mentre nel 1884, 1888 e 1889, all'interno del tempo Dorico, vennero realizzate delle ricerche in profondità per accertare la presenza di tracce pre-romane e per comprendere lo sviluppo urbanistico della città. Nell'ultimo decennio del XIX secolo fu esplorata la zona settentrionale della città, che portò alla scoperta della Casa dei Vettii, oltre allo scavo della cinta muraria compresa tra le torre IX e X[16].

 

XX e XXI secolo

 

L'inizio del XX secolo fu caratterizzato dalla decisione di poter lasciare effettuare a privati sessioni di scavo, per lo più al di fuori della antica città: questo provvedimento, molto discusso, provocò la perdita di notevoli reperti, ma permise al contempo di ottenere importanti informazioni su opere fondamentali dei pompeiani della città come ad esempio sul porto, che fu individuato tra il 1899 e il 1901, nei pressi di un canale del fiume Sarno[19]. Antonio Sigliano divenne direttore degli scavi nel 1905 e promosse un importante progetto di esplorazione, che però non riuscì a concludere: si trattava di una serie di sondaggi sotterranei, per conoscere la storia pre-romana di Pompei ed allo stesso tempo diverse esplorazioni di necropoli nei pressi delle porte Vesuvio, di Nola e di Ercolano, queste ultime di origine sannitica. Nel 1911 Vittorio Spinazzola divenne il nuovo direttore degli scavi: sotto la sua dirigenza, le indagini archeologiche si spostarono dalla parte settentrionale a quella meridionale della città; altro obiettivo del nuovo direttore era quello di unire l'Anfiteatro con il centro della città e di utilizzare metodi di scavi meno invasivi, in quanto convinto che molte case fossero dotate di un secondo piano, così come dimostrato da diverse pitture, ma che durante gli scavi veniva distrutto[19]: l'intuizione di Spinazzola fu giusta e durante le esplorazioni nei pressi di Via dell'Abbondanza la sua tesi venne confermata; in questo modo si venne a conoscenza che Pompei non era solo fatta di case residenziali, ma che aveva anche un ruolo produttivo e commerciale: in tale periodo furono scoperti Lavanderia Stephani ed il Thermopolio di Asellina[19]. Nel 1924 divenne direttore Amedeo Maiuri, incarico che mantenne per ben 37 anni: questo lungo arco di tempo fu uno dei più vivaci per la storia delle rovine. Venne completato lo scavo dell'anfiteatro e della palestra grande, si proseguì lo scavo lungo Via dell'Abbondanza, tra il 1929 ed il 1930 fu completato lo scavo di Villa dei Misteri, già iniziato nel 1909, furono completamente ripristinate le antiche mura e si iniziarono indagini alla necropoli di Porta Nocera ed alle ville urbane sul lato meridionale della città; inoltre proprio il Maiuri condusse studi stratigrafici utile per la ricostruzione cronologica di Pompei[19]. A partire dai primi anni del XX secolo si iniziò ad usare la fotografia come mezzo di studio, così come i disegni passarono da un modello artistico ad uno più tecnico[20]; le tecniche di scavo divennero più precise e tutti gli elementi asportati, come tetti, finestre e porte, rimossi per evitare crolli agli edifici, venivano poi riposizionati al loro posto una volta terminata l'esplorazione[21].

Dal 1967, in concomitanza con l'assunzione degli scavi da parte di Alfonso De Franciscis, le indagini subirono una brusca frenata[23]: il patrimonio era diventato molto ampio e tutto il complesso aveva bisogno di continue opere di restauro; fu così che l'attenzione si focalizzò su un aspetto conservativo, mentre nuovi scavi riguardarono solo singoli edifici e non più intere aree, come la Casa di Giulio Polibio, esplorata tra il 1964 ed il 1977 e la Villa di Fabio Rufo[23]. Un grave colpo fu dato dal terremoto dell'Irpinia del 1980 che provocò notevoli danni alle rovine, rendendo necessaria una totale opera di riassetto; le attività di risistemazione si servirono di una grossa documentazione fotografica, iniziata nel 1977 e terminata pochi giorni prima del sisma, dove tutte le pitture e le decorazioni vennero fotografate e catalogate[24]. Dal 1987 gli scavi proseguirono nella zona del regio IX, nei pressi di Via dell'Abbondanza[23]; nel 1995 partì l'opera di documentazione di tutto il patrimonio architettonico, analizzando ogni singolo monumento[24]. Nel 1997 l'area archeologica di Pompei, insieme a quella di Ercolano ed Oplonti, entrò a far parte della lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO[25].

Anche l'inizio del nuovo millennio fu caratterizzato da scavi nel zona del IX regio, tuttavia a causa di mancanza sia di fondi economici[1], sia di pochi restauri, alcune strutture hanno subito danni o crolli, soprattutto a seguito di avverse condizione meteo: la Schola Armatorum crollò il 6 novembre 2010, così come un muro del viridario della casa del Moralista[26], circa un mese dopo; altri crolli interessarono per lo più strutture murarie o pezzi di intonaco, come al tempio di Giove, al tempio di Venere e nei pressi della necropoli di Porta Nocera[27], agli inizi del 2014. Per far fronte all'emergenza l'Unione europea stanziò 105 milioni di euro per il totale restauro del sito[28]: i lavori cominciarono nel 2012 sotto il nome di "Grande Progetto Pompei", con il compito di ridurre il rischio idrogeologico all'interno del parco, consolidare le strutture murarie e restaurare quelle con decorazioni, perfezionare l'impianto di videosorveglianza e creare delle coperture ai monumenti in modo da permettere l'accesso ai turisti[29].


 

Umberto Boccioni: Sotto la pergola a Napoli

 

Da Repubblica:

«Bisogna però c o n f e s s a r e che la lotta per un serio r i n n o v a mento artistico a Napoli è quasi insostenibile. L' indifferenza del pubblico, l' ignoranza degli artisti, il camorristico silenzio della stampa, la potenza occulta dell' affarismo interessato all' arte sono tali, laggiù, da scoraggiare i più arditi». Era il 29 gennaio 1916 quando Umberto Boccioni scriveva così sul giornale milanese "Avvenimenti". Gino Agnese, giornalista, presidente della Quadriennale di Roma e biografo di Boccioni, aggiunge ora, nel contesto delle celebrazioni del Futurismo, nuovi capitoli alla vicenda napoletana dell' artista di Reggio Calabria che si considerava «un meridionale d' Europa», morto vicino a Verona per una caduta da cavallo proprio in quel 1916. Nel libro "Boccioni da vicino. Pensieri e passioni del grande futurista", uscito dall' editore Liguori, l' artista autore del Manifesto ai Pittori Meridionali, perdona anche il lazzaronismo, accogliendolo «per quello che ha di acuto ed etnicamente profondo». Per Boccioni Napoli è in consonanza con la sua meridionalità di originario della Romagna, che, anche se nasce per un caso a sud, sente l' ingiustizia di un progresso che va tutto verso nord. Perciò ne diventa un difensore militante. Agnese descrive un Boccioni viveur, frequentatore di locali e ballerine da cafè chantant. Ma anche un intellettuale che viene a Napoli con lo scopo di evangelizzarla al credo del movimento di Marinetti. Nell' aprile 1910, quando al Mercadante va in scena la serata futurista che doveva diffondere il verbo marinettiano, Boccioni si "appropria" interiormente della città. Lui, che aveva notato quanto fosse «divertente vedere un giovanotto (napoletano) perfettamente stile all' inglese fare con la bocca quel rumore chiamato pernacchio», si appassiona alla forma della "città verticale" e la attraversa nei suoi punti più nevralgici, tradizionali e rinnovati. I suoi posti sono l' Hotel de Londres, aperto da poco e già sfondo delle performance di Marinetti, che «è sceso con la sua troupe» e poi il Vomero con le due «modernissime» funicolari («vieni al Vomero: ho quassù 7 ragazze che mi girano intorno, che fanno il finimondo!», scrive a Balla), la trattoria di Pallino, la galleria di Palazzo Spinelli in via dei Mille, dove Giuseppe Sprovieri espone le opere dei seguaci di Marinetti. Boccioni viene anche invitato nel salotto di Croce, che - scrive Agnese - «è incuriosito dal loro entusiasmo». Loro, invece, i futuristi, guardando i quadri alle pareti non risparmiano commenti irriverenti: il filosofo replica che i quadri erano del padre e anche se non belli dovevano restare lì appesi per quel motivo. In casa del presidente degli Industriali che è anche un collezionista d' arte, Achille Minozzi, Boccioni incontra Vincenzo Gemito, capelli e grande barba bianca. I futuristi girano per case importanti e circoli come il Canottieri Savoia, frequentato dai duchi d' Aosta. La serata al Mercadante è stata un fallimento, e i giornali ne hanno dato conto puntualmente, ma poi Scarfoglio, direttore del Mattino, invita Marinetti e Boccioni in redazione. La Napoli che appare al pittoreè quella dei cafè chantant, del Salone Margherita, delle canzoni cantate dai posteggiatori nei ristoranti. Una città che, scrive Agnese, si vede riassunta alla maniera futurista nel suo dipinto del 1914, "Sotto la pergola a Napoli". In poco tempo ascolta Gennaro Pasquariello, interprete della canzone napoletana caro anche a Puccini e a Toscanini. Pasquariello aveva un merito per Boccioni: quello di cantare come nessun altro la canzone di Alfredo Falconi-Fieni "Uocchie c' arraggiunate". Ma se il Boccioni che si illumina per una canzone è quello perennemente innamorato, che concluderà la carriera con la sfortunata storia con Vittoria Colonna Caetani (raccontata da Marella Caracciolo Chia nel libro stampato da Adelphi "Una parentesi luminosa"), c' è anche un Boccioni che sa tagliare di netto le sue relazioni, senza risparmiare cinismo. Come nel caso della napoletana Armida Bruky, con la quale, alla fine di una lunga vicenda amorosa, condita anche da ritratti e dediche, il 26 settembre 1915 annota seccamente nel suo taccuino di soldato: «Finito con A.».

 

Il Corteo Reale A Piedigrotta Visto Da Ponente E Da Levante

 

Antonio Joli

Il corteo reale a Piedigrotta visto da Ponente e da Levante

olio su tela, 49,6×76,5 cm; 50,5×77 cm

1760 circa

 

I due dipinti, concepiti in pendant per offrire un’intera veduta del golfo di Napoli, presentano in primo piano la sfilata del corteo reale che si teneva l’8 settembre di ogni anno lungo la Riviera di Chiaia verso la chiesa di Santa Maria di Piedigrotta. Si trattava di una grandiosa parata militare, nella quale tra ali di folla festante, le carrozze reali e l’intera corte sfilavano sullo sfondo suggestivo della baia di Napoli, creando uno spettacolo d’incomparabile bellezza, di cui restano numerose testimonianze figurative.

L’artista che meglio seppe cogliere questa straordinaria sintesi di storia e natura fu il modenese Antonio Joli (1700 circa-1777). Erede del lucido vedutismo di stampo illuminista di Gaspar van Wittel, Joli arricchì e personalizzò il proprio linguaggio attraverso lunghi soggiorni nelle principali capitali europee, dove si fece apprezzare come scenografo e vedutista, raggiungendo infine, proprio a Napoli,

il culmine di una lunga e fortunata carriera.

All’interno della carrozza reale, rappresentata nel primo dei due dipinti, è ben riconoscibile la figura del re bambino Ferdinando IV, salito al trono 1759, all’età di otto anni, in seguito all’abdicazione del padre, Carlo di Borbone, che aveva ereditato la corona di Spagna. Poiché, tuttavia, quest’ultimo è ancora rappresentato accanto al figlio, la sfilata, a cui parteciparono eccezionalmente entrambi i sovrani, deve essere quella dell’8 settembre 1759, che si tenne subito l’incoronazione di Ferdinando e poco prima

della partenza di Carlo per la Spagna.

Il contenuto di Google Maps non è mostrato a causa delle attuali impostazioni dei tuoi cookie. Clicca sull' informativa sui cookie (cookie funzionali) per accettare la policy sui cookie di Google Maps e visualizzare il contenuto. Per maggiori informazioni, puoi consultare la dichiarazione sulla privacy di Google Maps.

 

FERRIGNO A SAN GREGORIO ARMENO

 

E' come entrare in un film, cioè vedere dinanzi agli occhi materializzarsi l'idea di una Napoli popolare ed opulenta, aristocratica ed oscura; imparentata SOLO & SEMPRE con la vita ma che non disdegna la Morte. Ferrigno è un posto strano, con prezzi per tutti ma con occasioni per pochi: cioè devi davvero capire cosa hai dinanzi per comprare. Se non, vattene da un'altra parte!

Il Settecento, ma non solo; il Re, ma non solo: ogni personaggio di Ferrigno è frutto di una operazione metastorica. Infatti, pur materializzandosi nel presente, la statuina attraversa due o tre secoli.

E forse Nietzsche non ci metteva in guardia a valutare bene che dentro ognuno di noi

ci sono almeno i due secoli precedenti?

Buon viaggio

 

Piazza Trieste e Trento

 

La piazza Trieste e Trento , già Piazza Ferdinando, è il vero cuore nonché l’epicentro

irradiante di tutti gli itinerari storico-artistici e turistici della città.

La piazza si presenta così asimmetrica e perciò caratteristica: dando le spalle a Via Toledo, alla nostra sinistra si trova la Chiesa di San Ferdinando, mentre sulla destra si trova un ex palazzo vicereale,

di fronte sulla sinistra si scorge la sontuosa Reggia.

Al centro della piazza troviamo la Fontana donata alla città da Achille Lauro quando fu sindaco di Napoli: una vasca circolare che, per la sua forma è stata prontamente denominata dall’arguzia popolare la fontana del Carciofo. La fontana appare estremamente suggestiva specialmente la sera, quando è illuminata.

La Chiesa di San Ferdinando, costruita nel secolo XVII dalla Compagnia di Gesù, dedicata in origine al santo gesuito Francesco Saverio, martire delle Indie, aveva annessi il convento dei religiosi e una “scuola di grammatica”. All’interno della chiesa troviamo un dipinti di Luca Giordano e di Giuseppe Ribera, detto lo spagnoletto. Tra l'altro la chiesa di San Ferdinando è nota anche come la chiesa degli artisti,

in quanto è quì che vengono celebrati i funerali degli artisti napoletani.

La piazza ha un fascino tutto perticolare d certamente doveva averne di più negli anni passati, quando gli “elegantoni” si soffermavano davanti allo scomparso “Caffè di Van Bol e Feste”

per attendere il passaggio delle signore.


 

UN LIBRO PER L'ESTATE 2: ANNIBALE RUCCELLO TEATRO

 

Teatro: Le cinque rose di Jennifer-Notturno di donna con ospiti-Weekend-Anna Cappelli-Mamma-Ferninando: Scomparso a trent'anni nel 1986, Annibale Ruccello è oggi più che mai un autore di culto dalla voce lirica e beffarda, espressiva di una generazione ansiosa di ricreare un teatro nuovo e dentro la realtà, ma capace anche di ridere nella tragedia. Arrivato alla scena dalla scuola di Roberto De Simone, rappresenta accanto a Enzo Moscato e Manlio Santanelli la punta di diamante della "nuova drammaturgia napoletana", e da regista e attore dei suoi testi, racconta la deriva della nostra società attraverso una scrittura che oscilla tra la verità del dialetto e la parodia dell'italiano televisivo, intrecciando echi storici col quotidiano, quando non riscrive pezzi di repertorio in feroci adattamenti.

 


 

NAPOLICARNALITA' 2: ANNIBALE RUCCELLO, ISA DANIELI & DON CATELLINO ED IL CORPO

 

 

Non è solo il fatto di stare a contatto con la morte, con i piedi su 2 SUPERVULCANI, che ci fa essere noi Napoletani, noi della Mezzaluna Fertile, i produttori di SIGNIFICATI che siamo. Noi creiamo identità - anche zozze, criminali, sbagliate...ma C  R E A T E ex novo - perchè stare su di un VULCANO, stare sopra il magma , equivale a stare come ai primordi della Terra, qualche miliardo di anni dopo il Big Bang.

Cosa sappiamo di quella Terra primordiale? Che conteneva, forse proprio grazie ai velenosi vulcani, tutti gli elementi del puzzle che crea la vita. Non vi sembra la descrizione adatta per Napoli?

Noi siamo sopra due SUPERVULACANI e produciamo mille SOGNI ed altrettanti SEGNI e Significanti e Significati perchè crediamo di essere a quei Primordi che altro non erano che il Regno delle Possibilità.

Possibilità non significa solo possibilità positive ma anche negative: in questo BRODO PRIMORDIALE che è Napoli il Futuro è già cominciato. Poi, vicino ai SUPERVULCANI c'è, dentro un'altra, immensa caldera spenta, il GOLFO, il MARE: altro produttore di Senso, altro produttore di SIGNIFICATO.

Io neanche so immaginarmi - certamente per provincialismo, per arretratezza, per....boh - come potrei vivere al Centro ed al Nord, cioè in posti BELLISSIMI e persino validi ma che non hanno SIGNIFICATO...

nel senso che non emettono SEGNI. 

Questa è la grande lezione di Ruccello: hai mille possibilità - sia che tu nasca Ferdinando, sia che tu nasca travestito o imbroglione o principe - e queste mille possibilità ti derivano dal fatto che sei qui, nel Regno del Significato per eccellenza. E sei qui - magari alla Ferrovia - ed hai il Corpo. Solo il Corpo. Sempre il Corpo. I sensi prima di tutto si acuiscono qui nel Brodo Primordiale dei 2 SUPERVULCANI...

...e affanculo per chi non sa vivere qui! 

 



 

ANNIBALE RUCCELLO & NAPOLI: IL TEMPO RITROVATO

 

Ferdinando di Annibale Ruccello riesce non solo a superare con un balzo immenso il teatro piccolo-borghese di Eduardo ma riesce anche a fermare il tempo, dilatandolo. La storia è nota: la baronessa borbonica si è messa a letto dopo l'invasione sabauda, circondata da una cugina povera, zitella, serva, carnefice & vittima ed un prete che è frocio e non frocio al tempo stesso ed ha studiato dai Gesuiti. Uno che, avendo capito tutto, predilige il Peccato. Irrompe in questa Villa Vesuviana Ferdinando - angelo-demone-teorema pasoliniano-fetente di merda-invasore sabaudo-e altro ancora ? - e con l'astuzia del frocio e il mellifluo della donna e l'arroganza del maschio si fa a tutti e tre con la sola idea di impossessarsi degli ultimi averi della baronessa. E non si chiama neanche Ferdinando ma, sabaudamente, Emanuele. 

Il tempo non c'è...oppure c'è in questo capolavoro ma è tempo che sa cambiare restando immutato. Come mi ricorda la mia generazione questo C A P O L A V O R O  del Ruccello: un fallimento che defeca immensi altri fallimenti. La verità è che il tempo si rifiuta di avanzare, oggigiorno, perchè questa generazione sazia e gonfia - TUMORALE -  rifiuta di fare un passo indietro ( avendo fallito ) o scomparire. Il tempo rifiuta di avanzare, oggigiorno, perchè il Potere ha compreso che , facendoci restare tesi come in uno spettacolo multimediale ( l' Uptight di Warhol, padre di tutta la feccia televisiva moderna! ) e abbagliati come in una immagine ottiene lo stesso che alle sfilate maestose di Norimberga. Ottiene lo stesso che l'irruzione di Ferdinando in mezzo a quella asfittica casa vesuviana, depredata, ANCHE, dalla Macrostoria Sabauda. Ma attenzione: l'Ottocentosettanta - epoca nella quale si consuma il dramma ruccelliano - Norimberga, Stalin, quell'idiota di Mussolini avevano un futuro. QUESTO TEMPO CHE RIFIUTA DI AVANZARE NON HA FUTURO !!! Perchè, ovviamente, rifiutando di avanzare rifiuta di Essere, di vivere veramente.

Mi viene in mente quello che qualche giorno fa mi ha detto una carissima amica, dinanzi al Pantheon Borbonico in Santa Chiara. Parlando di una antica amica comune...CHE E' SEMPRE UGUALE...lei sbotta: MA NON E' CONTENTA ! La rassegnazione - o meglio: il Quieto Vivere che Ferdinando manda all'aria... - non è Storia e non produce contentezza, Bellezza, Essere, fragranza. La mancanza della quale fa avanzare ancor meno il tempo.

Chi produce TEMPO, FUTURO, BELLEZZA in Ferdinando ? La immensa ISA DANIELI: la più grande attrice vivente. "Frocia" essa stessa - come tutti quelli che non giocano con questa scema invenzione culturale neolitica che è l'identità di genere - la Danieli è TUTTI I PERSONAGGI assieme. Ed è tempospazio che produce Futuro, con la sua angelica & demoniaca interpretazione. Grazie Ruccello. 


 

PE' PECCATO O PE' DISPIETTO

Torno su Ruccello per un concetto basilare che fa esprimere a Don Catellino: fare il peccato è ciò che distingue l'uomo dalla bestia. E' il più profondo concetto laico, ontologico, che abbia mai sentito. Eppure è un concetto che nasce proprio dalla civiltà ebraico-cristiana che lo esprime e che Don Catellino vorrebbe, prete blasfemo, contestare fin dalle fondamenta. L'abbiamo già detto: il cristianesimo nella sua variante cattolica, per scassare le reni alla IMMENSA civiltà greco-romana , non poteva che inventarsi un concetto (falso)ontologico nuovo: il peccato, figlio degenere - se vogliamo - della "iubris" greca. Sì, ma che c'entra tuitto ciò con Napoli? C'entra, nella misura in cui sappiamo che, ancora oggi, è una graeca urbs - alla maniera che intende Petronio - se un proprio un intellettuale ( che non parla di cagate come camorra, cocaina e puttanate del genere) ancora lo sottolinea con tanta veemenza. E' vero, a Napoli il peccato non esiste, a Napoli fare il peccato procura piacere e non si parla qui dei peccati sessuali che non interessano nessuno. Si parla del LIbero Arbitrio, del Corpo non colonizzato dal Potere . Spesso ho visto arrivare persone, background piccolo borghese, spaventate da ciò che il Potere dice di Napoli. Arrivare qui e poi andarsene felici : avevano "peccato"  in qualche modo e ciò li aveva in qualche modo salvati dalla

mediocrità. Devi solo essere uno zulù di provincia lontana per andartene come sei venuto, da Napoli. Peccare quindi, e santificarsi allo stesso tempo. Perciò Napoli è mal vista dal Potere: è anarchica quanto il Potere: si può fare tutto, persino peccare. E ciò, per il Potere, è inammissibile. Peccare quindi per essere davvero diverso dalle bestie. Molti napoletani con complesso di inferiorità parleranno di DISPETTO - come dice quella tra le ultime grandi canzoni napoletane. E' il complesso di inferiorità che li fa parlare; il credere che il modello - GIUSTISSIMO, per carità, ma MEDIOCRE - del "tutto funziona" (dove???) sia il MOdello da seguire. No, il Modello da seguire è la delizia di vivere nel peccato: solo che vbive nel peccato - nel Ventre di Napoli - è senza peccato.  Ha ragione Don Catellino: Napoli si distinge dalla BESTIA.

 

 


OSSIMòRO

 

Ossimòro (alla greca ossìmoro) s. m. [dal gr. ὀξύμωρον, comp. di ὀξύς «acuto» e μωρός «stupido», con allusione al contrasto logico]. – Figura retorica consistente nell’accostare nella medesima locuzione parole che esprimono concetti contrarî. Così recita la Treccani con la solita, puntuale, precisione. E mi chiedo: non vi sembra una descrizione spiccicata di Napoli? Ecco perchè LEI è U N I C A non solo in Italia ma nella stessa Campania, nello

stesso Sud. UNICA non significa necessariamente un fatto positivo; anzi, spesso essere UNICI significa essere soli o

in una turris eburnea. Ma Napoli se ne fotte! Perchè è pericolosamente, aggressivamente, sessualmente unica...Napoli? Ma perchè, molto prima che gli intellettuali rispolverassero il concetto di Doppio per desctrivere la modernità, la contemporaneità ed il cosiddetto post-moderno, Napoli era già come Treccani descrive l'ossimòro, la figura retorica. E' durissimo quindi pretendere che un qualsiasi balbettante barbaro possa comprenderla: nemmeno io che evito ogni pastoia piccolo-borghese - e vivo in un hinterland roso dal vento come Torre Annunziata Oplonti - riesco pienamente a coglierla. L'ossimòro che una cosa significa una cosa ed il proprio contrario regna sovrano in Napoli, nella sua sporcizia newyorkese - e non parlo semplicemente di spazzatura - nella sua inafferrabilità. Diciamolo: tutto viene inventato a Napoli anche quando sembra che venga da Honk Hong, Milano Linate oppure Pollena Trocchia. E se leggete Moscato, Ruccello, De Simone oppure vedete un capolavoro come Gorbaciof oppure, meglio ancora, vi fate un giro per i bassifondi lo capirete meglio. Il teatro di Ruccello è una scoperta che ho fatto da adulto e me ne pento perchè questo ritardo è frutto di un pre-giudizio. Troppo frocio, dicevo nella seconda metà degli anni Ottanta, lui già morto. Naturalmente mi sbagliavo. I Nuoivi Drammaturghi, infatti, sono i primi a cogliere l'ossimòro di questro Paradiso . Come i Velvet Underground mille anni prima, sezionano il male del Neocapitalismo dichiarandolo Bene. Piangono la morte del femminiello sostituito dal travestito ed oggi dagli insopportabili froci di regime che PRETENDONO diritti ( è anche giusto!!!) avendo in cambio solo CONFORMISMO e non maledizione. Andatevi a rileggere Ruccello, Moscato, le inchieste antropologiche di De Simone (quelle che in parte confluiranno ne La Gatta) e fate uno sforzo. Il problema che Napoli pone è che è uno specchio - ricordate Nico che cantava I'll be you mirror? Nessuno vuole specchiarsi quando è lo Specchio ad imporsi. Nascostamente uno vuole specchiarsi per rimuovere, per non volere vedere. Tutti odiamo gli specchi quando costoro si impongono e vogliono specchiarci a forza. Buona scoperta degli Inferi !!!


 

GLI ACQUARELLI DI WARHOL

 

Sono riuscito a mettere le mani su un acquarello della serie Vesuvius di Andy Warhol. La serie, ideata tra il 1984 ed il 1985, è fatta principalmente di immagini serigrafate e/o di poster su carta. Non sapevo di questi tentativi bellissimi fatti da Warhol nè riesco a capire se nel Catologo Ragionato delle opere questi Vesuvi ci siano. Fatto sta che debbo andare a Roma a vedere, di persona, di cosa stiamo parlando. E se posseggono un certificato di autenticità. Nella mostra che fu allestita a Capodimonte da Lucio Amelio nel 1985 - che vidi e della quale posseggo il catalogo, oggi introvabile - non c'era traccia di questi acquarelli. C'erano i Vesuvi dipinti (e non solo i serigrafati) alcuni dei quali furono acquistati da Versace in  Via Calabritto o dall'ex Banca Commerciale, oggi a Palazzo Zevallos. In queste opere il pop tipico di Warhol, fauvistico, coloritissimo, plastico/a,  si disperde dentro il colore che, con il nero, è il colore per eccellenza: il bianco. Leggiadri, aerei, questi Vesuvi comunicano non solo l'istante del rumoroso scoppio ma anche - leggerezza dell'Acquarello !!! - la quiete che ne deriva, come nella sospensione del tempo.


Andy Warhol a Napoli, suppongo all'Excelsior, fotografato da Bob Colacello

1976

 

Invitato da Lucio Amelio , Warhol viene a Napoli, per la prima volta, nel 1976. Già celebre in Italia, l'artista americano avrebbe dovuto dipingere, per un futuro Museo di Arte Contemporanea, una serie di opere. Forse i FALCE & MARTELLO. Purtroppo non se ne fece nulla per gli alti costi dell'operazione. Warhol restò a Napoli tre giorni e, fino ad oggi, personalmente ignoravo l'esistenza di queste foto. Nel catalogo de Viaggio in Italia - la mostra su Warhol che si tenne al Maschio Angioino nel 95 - c'è una sola foto dell'evento. Ma riguardante la conferenza stampa. Esiste poi, fatto per l'occasione al Dante & Beatrice di Piazza Dante, da Mario Franco, un film "warholiano" chiamato ANDY WARHOL EATS. In occasione dell'ultima mostra al PAN, tra le varie memorabilia warholiane, in una saletta si proiettava il rarissimo filmato di Mario. Che io ho ripreso con il mio Nokia e ri-chiamato EDIT ANDY WARHOL EATS