Francesco De Mura

Gloria dei Principi di Borbone

 


 

Introduzione

troverete qui articoli, studi ecc. SOLO DI ORIGINE ACCADEMICA o che abbiano un VALORE INTRINSECO.

Nessun Primato Neoborbonico o amenità del genere sarà trattato in queste pagine. 

 


 

I Campi Flegrei

 


 

Alessandro D’anna
Napoli da Margellina / Il Vesuvio dal molo

 

Alessandro D’anna fu certamente la figura di maggior rilievo
nella produzione di gouaches che avvenne a Napoli dagli ultimi
decenni del settecento fino alla metà dell’ottocento.
Questa coppia di vedute costituisce un insieme tra i più rappresentativi
di questo artista.
In ambedue le inquadrature lo sguardo è diretto verso sud,
come se l’artista suggerisse allo spettatore di partire dai piedi
della collina di Posillipo, – magari dopo essersi rinfrancato in
una osteria o all’ombra – e dopo aver percorso tutto il lungomare
e sorpassato anche Castel dell’Ovo, arrivare fino al Molo.
Cosi facendo ci siamo avvicinati al Vesuvio che ora è più grande,
si vedono distintamente anche il grande edificio dei Granili e
lontanissimi i monti del Sannio. Lungo la strada lo spettatore
ha incontrato la più varia umanità: nobili, borghesi e popolani
assembrati, accoppiati, da soli, a piedi o in carrozza ognuno
con la sua particolarità e la sua occupazione. Questi dipinti, in
effetti sono il racconto del lungomare di Napoli alla fine del
diciottesimo secolo.

 


 

Villa di Poggioreale

 

La Villa di Poggioreale fu una villa ubicata a Poggioreale, fuori le mura di Napoli ed uno degli edifici più importanti del Rinascimento napoletano. Era compresa in un'area tra le attuali via del Campo, via Santa Maria del Pianto e le vie nuova e vecchia Poggioreale.Nell'area dove sorgeva la villa, vi era l'acquedotto della Bolla (o Volla) che, con il serbatoio chiamato Dogliuolo, dal latino Doliolum o Dolium (vasca), portava le acque del Sarno in città con condutture sotterranee. La valle della zona del Dogliuolo era una distesa di terre paludose, nonostante vari tentativi di bonifica di sovrani angioini ed aragonesi.[1] Pertanto, nel 1485, il re Ferrante I di Napoli provvedette con dispacci regi alla bonifica della zona: realizzò, infatti, dei canali di scolo come il Fosso reale e il Fosso del Graviolo che debellarono la malaria nella capitale.

 

Nel medesimo periodo, nella zona limitofa del Guasto[2], sorsero numerose ville di svago della nobiltà napoletana del Rinascimento. Nell'area di Poggioreale, intorno al 1487, il Duca di Calabria e futuro re Alfonso II, acquistando una masseria al "Dogliolo", decise di realizzare una residenza reale extra moenia, forse ad imitazione di quelle che andava realizzando il suo alleato Lorenzo il Magnifico.

 

Per la costruzione dell'edificio e dei suoi annessi, Alfonso utilizzò la sua autorità per espropriare terreni, spesso senza indennizzo,.[3] giungendo a togliere l'acqua ad alcuni mulini che appartenevano a Gian Battista Brancaccio, poiché passava per il suolo destinato all'edificazione. Il progetto della residenza venne affidato all'architetto fiorentino Giuliano da Maiano che giunto in città nel 1487 con il modello della villa, elaborato a Firenze, iniziò i lavori e continuò a dirigere il cantiere fino alla sua morte, avvenuta nel 1490, quando l'edificio era sostanzialmente completato ed in parte utilizzato. L'opera, fu poi continuata, forse da Francesco di Giorgio e allievi del Da Maiano, diventando il luogo privilegiato per i ricevimenti della corte. Il disegno della villa ebbe notevole successo, tanto che la struttura venne citata anche nel Libro III del trattato di architettura cinquecentesco di Sebastiano Serlio.

 

Nel 1494, a causa dell'invasione francese condotta da Carlo VIII, il re Alfonso fuggì in Sicilia e dalla villa partenopea raccolse le suppellettili più preziose; di lì a poco l'immobile cadde in abbandono e, in seguito, per far fronte a problemi economici, il re Ferdinando II di Napoli cedette parti della villa (compresi i giardini che vennero poi adibiti a coltivazione).

 

La struttura, che ormai era decaduta, si ritrovò al centro della battaglia di Odet de Foix per la conquista della città di Napoli. A causa della distruzione dell'acquedotto si scatenò una epidemia di malaria che distrusse l'esercito francese; fu così che i Francesi dovettero ritirarsi e, contemporaneamente, l'area di Poggioreale divenne nuovamente malsana e si dovette aspettare qualche anno per la bonifica dei terreni circostanti.

 

La villa venne utilizzata anche per gli incontri importanti, come quello di Carlo V del 1535, mentre, a causa dei ripetuti terremoti, nel 1582 fu necessario un consolidamento delle sue strutture.

 

Nel 1604 cominciò la rinascita del complesso. Il viceré Juan Alonso Pimentel de Herrera, infatti, decise di abbellire il percorso della villa reale, con filiari di alberi e fontane. Tuttavia, con la peste del 1656 il complesso cade nuovamente in rovina.

 

La collinetta di Poggioreale divenne, da quel momento, luogo di sepoltura per gli appestati e la villa voluta dal re Alfonso II cadde in abbandono e venne ceduta, come attestano i documenti del XVIII secolo, ai Miroballo; uno degli esponenti della famiglia, nel 1789, parla esplicitamente della caducità del palazzo e dei suoi giardini ridotti a colture.

 

Nel 1762, a breve distanza dal sito reale venne costruito il Cimitero delle 366 Fosse ad opera di Ferdinando Fuga, mentre, al principio del XIX secolo venne progettato da Francesco Maresca, Stefano Gasse, Luigi Malesci e Ciro Cuciniello il Cimitero di Poggioreale, che venne eretto sulle precedenti rovine della villa, determinandone la completa cancellazione, tanto che la stessa localizzazione del sedime dell'edificio risulta difficile.[4] 

La villa fu il punto di arrivo della progressiva conversione alle forme rinascimentale della capitale aragonese, avvenuta sul finire del XV secolo.

 

Si può ancora farsi un'idea dell'aspetto della villa grazie alla riproduzione nel trattato di Sebastiano Serlio e grazie alla sua fortuna critica che la rese esemplare anche per l'architettura del XVI secolo.

 

L'edificio principale era caratterizzato da un impianto molto originale, con richiami all'antico adattati alle esigenze contemporanee. La tipologia di base era infatti la villa antica con peristilium, contaminata con esigenze difensive da un castello medievale e con quelle di residenza, svago e rappresentanza legate alle necessità di una corte di fine secolo.

 

Ne nacque un edificio di dimensioni relativamente contenute, caratterizzato da un corpo principale a base quadrangolare, con quattro ali sporgenti agli angoli, simili a torri angolari, ma di altezza uguale al resto del fabbricato. L'edificio era porticato sia sul lato interno, intorno ad un cortile quadrato, pavimentato con mattonelle di ceramica invetriata,[5] infossato per cinque gradini, che richiamava modelli antichi, quali i teatri e le vasche termali. Il cortile, secondo un modello di Vitruvio, poteva essere coperto con un solaio ligneo per essere sfruttato per feste e rappresentazioni, oppure essere allagato come effetto scenico.[6]

 

Il disegno che ne fa Serlio, che non vide mai l'edificio, non corrisponde perfettamente al costruito, soprattutto perché rappresenta quattro portici al centro dei prospetti esterni che non furono mai realizzati. Inoltre Serlio non prende in considerazione la copertura lignea che sembra trasformasse il cortile interno in un grande sala centrale.[7] Infine l'edificio non costituiva un quadrato perfetto, ma un rettangolo come risulta dalla pur scarsa documentazione iconografica successiva.[1]

 

L'edificio principale affacciava su un giardino quadrato antistante e su un grande cortile laterale con edifici di servizio. Il complesso continuava con una loggia su due piani, una peschiera ed aree a giardino, sempre lateralmente rispetto all'edificio principale.[3]

 

Nell'interno vi erano affreschi realizzati dai più importanti artisti; tra quiesti spiccavano quelli di Pietro e Ippolito del Donzello che rappresentavano episodi della guerra di Alfonso contro i Baroni di pochi anni prima.

 

Di notevole bellezza erano i giardini all'italiana ornati da esuberanti fontane. Notevole era pure la presenza di sculture, anche antiche, che erano sparse sia nell'edificio che nelle varie parti del giardino. Il progetto dei giardini forse fu dovuto, almeno in parte, a Fra' Giocondo ed a Pacello da Mercogliano. I due seguirono Carlo VIII in Francia per occuparsi, soprattutto il secondo, dei giardini delle residenze reali.[8]

 

Il complesso era completato da un grande parco, adibito a bandita di caccia, che arrivava al mare.

 

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ESI PER NATALE 3

 

Una ''economia alle strette'' nel Mediterraneo

De Matteo Luigi

Nel corso dell’Ottocento l’economia del Mezzogiorno è “una economia alle strette”, alle prese con l’accelerazione del processo di globalizzazione dei mercati imposto dalla supremazia delle grandi potenze commerciali e industriali che sbaragliano ogni concorrenza con i loro manufatti e dominano gli scambi a tutte le latitudini. Politiche economiche e creditizie e struttura delle opportunità di investimento, rapportate alle obiettive difficoltà con le quali, nelle nuove gerarchie determinate dalla divisione internazionale del lavoro, i Paesi agricolo-commerciali dell’Europa mediterranea furono costretti a misurarsi, inquadrano l’avventura degli imprenditori che a Napoli e nel Mezzogiorno avviarono o consolidarono le loro imprese all’ombra della politica di sostegno dei Borbone. È la storia di un ceto imprenditoriale articolato e capace, segnata dal drammatico spartiacque della crisi dell’unificazione che, aggravata dall’imperversare del brigantaggio, sottovalutata dai governi, condizionerà il futuro economico della ex capitale e del Mezzogiorno. Una storia che definisce un Ottocento breve, dall’impulso del blocco continentale alle attività produttive nel decennio francese alla crisi della Restaurazione, al modello dirigista dei primi anni ’20 agli effetti di lungo periodo dell’introduzione del modello liberista della Destra Storica. Una storia che termina in dissolvenza alla vigilia degli «anni più neri dell’economia italiana». Non a caso. Dopo il tracollo del settore industriale, della Compagnia di Navigazione a Vapore delle Due Sicilie e di numerose altre imprese pubbliche e private seguito all’Unità, negli anni ’80 nel Mezzogiorno si può considerare esaurita anche l’esperienza del gruppo di imprenditori, soprattutto titolari di case bancarie e commerciali, che era riuscito a superare la crisi postunitaria e ad affermarsi nell’Italia unita. Ora che il Paese, convertito decisamente al protezionismo nel 1887, conosce un primo sviluppo nelle regioni del triangolo industriale, ben pochi di quegli imprenditori (e dei loro eredi) saranno in grado di raccogliere la nuova sfida da una Napoli e da un Mezzogiorno ormai “questioni nazionali”, da affrontare, per il ritardo economico e sociale accumulato e per il marcato divario con altre città e aree del Paese, con leggi speciali e misure straordinarie.

 


 

GRIMALDI PER NATALE 3

 


 

Il Brigantaggio secondo Giordano Bruno Guerri

 

Vi propongo questo breve intervento del Guerri, intellettuale che non amo ma che, con grande lucidità, ha analizzato e capito le ragioni del Sud "invaso", pur essendo lui un nordico. In più è stato pupillo di una delle mie maestre: las professoressa Ida Magli. Buona lettura

 

Il Risorgimento è da tempo sottoposto ad una revisione storiografica che ne abbassa realisticamente i toni da libro Cuore, travasati per oltre un secolo nei libri di storia, in particolare di quelli scolastici. In realtà al Sud lo Stato italiano (“i Piemontesi”) veniva sentito come un corpo estraneo e invasore, portatore di leggi e balzelli. Non esisteva ancora negli italiani un sentito concetto di patria, men che meno di nazione e di popolo. L’unità era stata un’invenzione di politici e intellettuali, non era un desiderio sentito dalle masse; i famosi plebisciti con il 99.9 per cento di assensi sull’annessione delle varie regioni all’Italia, cioè al regno dei Savoia, rappresentavano in realtà il 2 per cento della popolazione. Le masse erano prima di tutto ignoranti, povere e legate alla propria cultura regionale, non sentivano il bisogno della nuova, grande patria.

 

Il “brigantaggio” – sostenuto dai Borboni in esilio, dal clero, da veri briganti e dalla popolazione civile – fu una rivolta di massa, sociale e politica, una vera guerra civile sanguinosissima che l’ufficialità di allora, i regimi successivi e la storiografia si sono sempre sforzati di nascondere. Era la prima, dura prova dello Stato unitario, sulla quale si giocava la sua credibilità internazionale; e lo Stato, nel periodo 1861-1864, impiegò quasi metà dell’esercito per vincere la ribellione. Il 15 agosto 1863 fu approvata la legge Pica, che estendeva la repressione alla popolazione civile, ovvero a chiunque fornisse ai “briganti” viveri, informazioni “ed aiuti in ogni maniera”. Con questo strumento operarono i nomi più illustri dell’esercito, Alfonso La Marmora, Enrico Cialdini, Enrico Morozzo della Rocca, Giacomo Medici, Raffaele Cadorna.

 

Intere regioni furono sottoposte a un regime di occupazione, ebbero villaggi incendiati, coltivazioni distrutte e lutti – decine di migliaia, non si sa quanti – dovuti ai “piemontesi”. La crudeltà fu estrema da entrambe le parti. La popolazione considerava i briganti eroi coraggiosi contro un invasore. Ancora ottanta anni dopo Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli, scrisse: “Non c’è famiglia che non abbia parteggiato, allora, per i briganti o contro i briganti; che non abbia avuto qualcuno, con loro, alla macchia, che non ne abbia ospitato o nascosto, o che non abbia avuto qualche parente massacrato o qualche raccolto incendiato da loro. A quel tempo risalgono gli odi che dividono il paese tramandati per le generazioni, e sempre attuali. Ma, salvo poche eccezioni, i contadini erano tutti dalla parte dei briganti, e, col passare del tempo, quelle gesta che avevano colpito le loro fantasie si sono indissolubilmente legate agli aspetti familiari del paese, sono entrate nel discorso quotidiano, con la stessa naturalezza degli animali e degli spiriti, sono cresciute nella leggenda e hanno assunto la verità certa del mito.”

 

Non è possibile capire il successivo rapporto Nord-Sud, fino ai nostri giorni, se non si tiene conto di quegli eventi. L’Italia settentrionale assistette inorridita alla guerra, per quanto si cercasse di nasconderne la gravità, e si cominciò a chiedersi se annettere “quei selvaggi” era stato un bene. Il banditismo venne stroncato senza che peraltro venisse risolto il problema della criminalità, né tanto meno quello della sopravvivenza quotidiana dei più poveri.

 

Alla fine del 1865, la lotta al “brigantaggio” era ormai vinta, anche se durerà almeno fino all’annessione dello Stato della Chiesa. Il governo centrale si era imposto, l’Unità era salva grazie all’esercito, ma a caro prezzo. Scrive Gianni Oliva: “L’introduzione del regime costituzionale e delle annesse garanzie statutarie, che era stato presentato come il più importante motivo di progresso politico conseguente all’unificazione, si era di fatto risolto nella sua stessa negazione, la dittatura militare”. Prima di lui, un padre della patria, Luigi Settembrini era arrivato a una conclusione ineccepibile, nel suo realismo: “L’esercito è il filo di ferro che tiene unita l’Italia dopo averla cucita.”

 

 


 

Cimitero delle 366 fosse

 

Il cimitero di Santa Maria del Popolo (ma comunemente noto come cimitero delle 366 fosse o cimitero dei tredici) è un antico cimitero di Napoli, per un certo periodo dismesso, ma da almeno il 2012 nuovamente visitabile. Il cimitero fu commissionato nel 1762 da Ferdinando IV di Borbone (che sostenne la proposta fatta dall'ospedale di Santa Maria del Popolo degli Incurabili) all'architetto Ferdinando Fuga, che realizzò un'opera degna di rilievo per l'introduzione di criteri di razionalizzazione delle sepolture, del tutto coerente con lo spirito dell'"epoca dei lumi".[3]

 

Sorge ai piedi della collina di Poggioreale, un tempo chiamata monte di Leutrecco o, popolarmente, Lo Trecco[4][5] (che sarà ancora più deformato in "Trivice", la cui scorretta italianizzazione è "Tredici"). L'origine del termine "Leutrecco" proviene a sua volta dalla deformazione del nome di Odetto de Foix (visconte di Lautrec). Quest'ultimo, nell'ambito delle guerre franco-asburgiche, ed in particolare dopo il sacco di Roma perpetrato dai lanzichenecchi di Carlo V, installò in questa zona l'accampamento francese durante l'assedio a Napoli (1528).[6]

 

Questo cimitero fu il primo esempio cittadino di area specificamente dedicata ai poveri, e si colloca nell'ambito dell'attenzione dedicata da Ferdinando IV di Borbone alle classi meno abbienti. La sua realizzazione fa infatti da contraltare a quella del Real Albergo dei Poveri, progettato dallo stesso Fuga[7]. Fu inoltre in assoluto il primo cimitero ad essere costruito al di fuori delle mura cittadine; in precedenza, era comune, per i ceti popolari l'uso di sotterrare i morti nelle cavità di ospedali, chiese e grotte, ed in particolare l'uso di una grande cavità, detta piscina, posta sotto l'ospedale degli Incurabili. Quest'ultima fu in particolare sfruttata durante l'epidemia di peste del 1656, insieme alla caverna sottostante la vicina chiesa di Santa Maria del Pianto.[1]

 

Nel 1837 il cimitero fu affiancato dal cimitero dei Colerosi realizzato da Leonardo Laghezza.[8]

 

L'area cimiteriale delle 366 Fosse è stata chiusa nel 1890[9], dopo aver accolto più di settecentomila corpi. Negli anni sessanta del XX secolo, ad attività d'uso delle cavità sotterranee cessata, sono stati aggiunti loculi al muro perimetrale.[10]

L'accesso al cimitero è garantito tramite una rampa raggiungibile da via Fontanelle al Trivio, una traversa di corso Malta.

 

Il cimitero è articolato in forma di quadrato perimetrato da una muratura, che sul lato di ingresso ospita un edificio rettangolare destinato ai servizi. Il portale d'ingresso è sormontato da un timpano, nel cui interno è raffigurato un simbolo mortuario. Ai lati dell'ingresso due grandi lapidi dettate da Alessio Simmaco Mazzocchi che narrano l'apertura del sepolcreto voluto dal re.[12]

 

All'interno, il vasto cortile così delimitato è suddiviso in 366 ambienti ipogei disposti in 19 file per 19 righe, cui vanno aggiunte 6 fosse disposte nell'atrio dell'edificio rettangolare (fosse scomparse a causa dell'ampliamento del cimitero eseguito nel 1871).[13][14]

 

La fossa centrale, non destinata a sepolture, raccoglie e convoglia le acque piovane.

L'unicità di questo cimitero consiste nella particolarità del suo impianto, concepito in maniera tale da consentire l'inumazione ordinata dei morti secondo un criterio cronologico. Le 366 fosse, infatti, consentivano di gestire tutte le sepolture durante tutto l'anno, tenendo conto anche degli anni bisestili.

 

La procedura prevedeva che ogni giorno venisse aperta una fossa diversa, che a sera venisse poi richiusa e sigillata. La sequenza, che a regime prevedeva l'utilizzazione di tutte le fosse, era fissata secondo un criterio logico: si partiva il 1° di ogni anno dalla riga confinante col muro opposto all'ingresso, procedendo da sinistra a destra sino alla 19ª fossa e da destra a sinistra nella riga successiva e così alternando, fino ad esaurimento.

 

Con questo sistema si riduceva al minimo lo spostamento del macchinario per il sollevamento delle pesanti lapidi di basalto, utilizzato anche per calare il corpo nella fossa. Quest'ultima procedura veniva realizzata attraverso l'uso di una cassa con fondo a rilascio, che eliminava quindi la possibilità di sepolture sbrigative e impietose. Il macchinario per il sollevamento delle lapidi è ancora oggi visibile, seppur inutilizzabile. Inizialmente, le salme venivano semplicemente gettate nelle fosse. Nel 1875 una baronessa inglese, avendo perso la figlia durante un'epidemia di colera, volle contribuire a rendere più compassionevoli le operazioni di sepoltura nel cimitero. Ella donò un argano con cui calare nelle fosse una cassa dotata di un meccanismo di apertura sul fondo, permettendo in questo modo di adagiare le salme nelle fosse.[

 

Ciascuna fossa, cui si accedeva dall'alto mediante un tombino, aveva una profondità di 7 metri e una pianta di 4,20 per 4,20 metri ed era segnata sulla pietra di copertura con un numero progressivo da 1 a 366, corrispondente alla data del giorno stabilito per l'apertura annuale, scritto con numerazione araba. Il numero 366 corrispondeva alla data del 29 febbraio

 


 

GLI SCAVI ARCHEOLOGICI DI ERCOLANO E POMPEI: LA PRAMMATICA DI CARLO DI BORBONE

PER LA SALVAGUARDIA DELLE «COSE» DI INTERESSE STORICO ARTISTICO

 

La conoscenza del passato è lo strumento fondamentale per capire ciò che accade oggi. Per noi napoletani è fondamentale riscoprire il valore di ciò che ci circonda: solo così potremo apprezzare al meglio le bellezze di questa città che per consuetudine e distrazione siamo abituati a guardare quotidianamente con occhi privi di interesse. Ritrovare il significato di questi beni, così da riappropriarci di ciò che ci appartiene, attraverso la conoscenza, è ciò che mi propongo di fare, dando un sguardo al passato e riportando alla memoria personalità che hanno contribuito a rendere grande questa città. Uno fra tutti, Carlo di Borbone che rese tanto moderna la Napoli Capitale: riconsiderare tale modernità può essere una spinta per avere un approccio differente verso il futuro.

 

Carlo di Borbone, primogenito delle seconde nozze di Filippo V di Spagna con Elisabetta Farnese, si insediò a Napoli nel 1734. L’anno successivo fu incoronato re delle Due Sicilie. Con lui si inaugurò un periodo di rinascita politica, ripresa economica e sviluppo culturale. Già nel 1738, concesse a Roque Joaquin de Alcubierre, ingegnere ed archeologo spagnolo, l’autorizzazione per procedere ad una campagna di scavi nella zona vesuviana, a seguito del ritrovamento di alcuni manufatti di epoca romana. Questo portò al rinvenimento dell’antica Ercolano e, solo dieci anni più tardi, nel 1748, iniziarono i primi scavi nell’area pompeiana. Come è facile immaginare, gli scavi ercolanensi suscitarono grande ammirazione ed entusiasmo. Immediatamente ci si rese conto dell’importanza della scoperta e dell’interesse antiquario delle pitture rinvenute. L’acquisizione delle opere seguì un criterio essenzialmente collezionistico tanto che non vi fu alcuna selezione e si estraeva tutto ciò che si poteva. Gli scavi venivano condotti grazie alla creazione di gallerie e ciò dovette pregiudicare la percezione dell’appartenenza dei dipinti ad un contesto decorativo più ampio. Si pensò al modo più adatto per prelevare e portare all’esterno le pareti dipinte che si susseguivano all’interno degli stretti cunicoli che si andavano scavando. Si decise di seguire una metodologia tradizionale, ovvero, lo stacco a massello che consentiva una notevole rapidità di esecuzione: una volta tagliate dal muro, le porzioni figurate degli intonaci dipinti venivano assottigliate ed adagiate su un supporto. Questi dipinti murali venivano trattati  come singoli «quadri» figurativi che dovevano andare ad arricchire le collezioni reali. Reperti di questo tipo erano considerati fino a quel momento rarissimi e, quindi, di grandissimo pregio. Carlo di Borbone ebbe la possibilità di esibirne numerosi esemplari ed in molteplici varianti. Anche le pitture del Tempio di Iside, vennero tagliate e trasportate nelle collezioni reali. Il re si mostrò contrario all’idea di conservare in loco le decorazioni pittoriche dell’intero complesso. In questo caso, la sua contrarietà non fu tanto dovuta alla preoccupazione che le collezioni reali venissero private di alcuni importanti esemplari, quanto al timore, rivelatosi fondato, che la conservazione di quelle pitture potesse essere messa a rischio a causa dell’esposizione alle intemperie. Il re temeva anche che potessero esserci dei furti negli scavi che avrebbero avuto come conseguenza la comparsa sul mercato antiquario di reperti di inestimabile valore e ciò poteva compromettere l’unicità della sua collezione. Pertanto, il Regno borbonico fu il primo, tra gli stati preunitari, ad adottare un provvedimento che regolamentasse lo spostamento delle «cose» di interesse storico artistico. Infatti, nel luglio 1755, Carlo di Borbone emanò la Prammatica finalizzata ad impedire l’asportazione, il saccheggio ed il commercio delle opere archeologiche. Essa proibiva lo spostamento di oggetti da un qualsiasi immobile antico senza una preventiva licenza rilasciata dal Governo regio; inoltre, nella stessa si sottolineava l’importanza di conservare tali opere. Alla Prammatica di Carlo di Borbone seguirono altri editti come quelli pontifici del 1802 e del 1820. Il primo, l’editto Doria Panphìli, successivo alla requisizione napoleonica, era incentrato sulla necessità di conservare i monumenti e di impedire furti, sciacallaggio e commercio clandestino di opere antiche. Il secondo, l’editto  Bartolomeo Pacca, dal nome del cardinale camerlengo che lo redasse, prevedeva la creazione di un corpo di funzionari volto a far rispettare le leggi dell’editto Doria Panphìli. Successivamente, il governo borbonico emanò anche due editti con la finalità di tutelare le opere classiche. Il primo, emanato da Ferdinando I nel 1822, istituì una Commissione consultiva di antichità e belle arti volta a decidere quali fossero i beni che potevano essere esportati. Col tempo, dall’ambito prettamente archeologico, la tutela si diffuse anche agli altri monumenti tra i quali le chiese in stato precario che divennero oggetto di indiscriminati restauri. Proprio per regolare questi interventi arbitrari, nel 1839 Ferdinando II emanò il secondo editto la cui direttiva era volta a disciplinare i lavori in modo da non offendere le opere antiche. Si impose anche la vigilanza delle autorità di governo su tali interventi.

All’atto dell’unificazione nazionale, l’Italia era carente, dal punto di vista legislativo, di norme atte a tutelare il suo vasto ed eterogeneo patrimonio. Pertanto, nel 1871 con la legge n°286 si provvide ad affermare la validità degli editti dei governi pre-unitari.

Per ottenere la prima legge nazionale di tutela bisognerà aspettare il 1902, quando fu emanata la legge Nasi.

 

Grazie a: https://www.unionemediterranea.info/notizie/gli-scavi-archeologici-di-ercolano-e-pompei-la-prammatica-di-carlo-di-borbone-per-la-salvaguardia-delle-cose-di-interesse-storico-artistico/

 


 

Ercole (pirofregata)

 

L’Ercole è stata una pirofregata (successivamente pirocorvetta) della Real Marina del Regno delle Due Sicilie, successivamente acquisita dalla Regia Marina. Costruita tra il 1841 ed il 1844 nei cantieri di Castellammare di Stabia per conto della Real Marina del Regno delle Due Sicilie, l'unità (che in origine avrebbe dovuto chiamarsi Gaeta, ma che venne ribattezzata Ercole il giorno del varo, 28 maggio 1843) fu la prima nave da guerra a vapore costruita nel Regno delle Due Sicilie[1]. L'apparato propulsivo era costituito da quattro caldaie tubolari Gruppy e da una macchina alternativa a vapore Maudslay & Field, che imprimeva la potenza di 30 CV a due ruote a pale laterali articolate tipo Morgan, permettendo una velocità di sette nodi ed un'autonomia, a tale velocità, di 192 ore. La nave aveva inoltre due alberi a vele quadre (armamento velico a brigantino), il secondo dei quali, l'albero maestro, divenne poi a vele auriche (brigantino goletta)[2][4]. L'armamento si componeva in origine di dieci bocche da fuoco: un cannone a canna liscia da 117 libbre, uno da 60 libbre, quattro obici lisci Paixhans da 30 libbre ed altrettanti in bronzo da 12 libbre. Primo comandante dell’Ercole fu il capitano di fregata Giovanni Vacca[4]. Il 12 maggio 1845, a meno di un anno dall'entrata in servizio, la nave fu di scorta alla pirofregata Tancredi, che trasportava a Messina, e quindi Siracusa, il re di Napoli Ferdinando II[4].

Nel 1848, durante la rivolta indipendentista della Sicilia, la nave, assegnata alla squadra del conte d’Aquila, trasportò a Palermo reparti del corpo di spedizione del generale Carlo Filangieri, inviato a reprimere la ribellione[4]. Successivamente la pirofregata effettuò numerose crociere nelle acque del Mar Mediterraneo[4].

Il 4 aprile 1860, nel corso dei moti siciliani che precedettero l'impresa dei Mille, l’Ercole, al comando del capitano di fregata Carlo Flores, aprì il fuoco contro bande di insorti armati a Sant'Erasmo, sulla strada di Bagheria, ad Acqua dei Corsari e nelle campagne di Villabate[5]. Il 17 aprile la nave avrebbe dovuto imbarcare la colonna Perrone impegnata nella repressione, ma poté farlo solo l'indomani, causa il mare mosso[5]. Il 20 aprile la nave venne inviata a pattugliare le acque tra Capo San Vito ed il faro di Messina, nonché il golfo di Castellammare[5]. Il 7-8 maggio la nave trasportò da Alcamo a Solanto il generale Letizia, incaricato di debellare un gruppo di rivoltosi[5].

Durante l'impresa dei Mille, il 16 maggio 1860, la nave trasportò a Castellammare del Golfo il V Battaglione estero al comando del colonnello Won de Mechel, che tuttavia, appena sbarcato, venne richiamato a Palermo[6]. il 24 maggio 1860, il generale Ferdinando Lanza depositò sull’Ercole circa 600.000 ducati prelevati dal Regio Banco di Palermo, poi la nave venne inviata ad esplorare la costa nei pressi di Marsala per cercare di catturare il piroscafo britannico Blackwall, proveniente da Genova con 830 volontari, 400.000 franchi, 4000 fucili e parecchie munizioni[5]. Il 28 maggio la pirofregata, ancora al comando di Flores, bombardò con le sue artiglierie (era frattanto stata dotata anche di obici Paixhans da 68 libbre) la città di Palermo, appena liberata dalle truppe garibaldine, provocando numerose vittime[7][8].

Successivamente, il 7 settembre 1860, la pirofregata, che si trovava a Napoli al comando del capitano di fregata Francesco Beneventano, disobbedì all'ordine di seguire Ferdinando II a Gaeta, e passò alla Marina sarda, come la maggior parte della flotta del Regno delle Due Sicilie. Pochi mesi dopo la nave partecipò all'assedio della piazzaforte di Gaeta, dove si era asserragliata la famiglia reale borbonica (la città, assediata a partire dal novembre 1860 e continuamente bombardata dalla flotta sabauda a partire dal 22 gennaio 1861, si arrese il 13 febbraio dello stesso anno), dopo la quale trasportò a Genova circa cento prigionieri borbonici. Il 17 marzo 1861 l’Ercole venne incorporata nella neocostituita Regia Marina[4]. L'armamento venne ridotto a sei pezzi da 160 mm, quattro a canna liscia e due a canna rigata[3]. Nel giugno 1863 la nave venne declassata a pirocorvetta (altre fonti fanno risalire a questo periodo, invece che al 1861, il cambio dell'armamento)[4].

Nel 1863 la pirofregata, al comando del capitano di fregata Camillo Lampo, prese il mare diretta in Sudamerica: nel corso del viaggio l'unità fece scalo a Montevideo, Rio de Janeiro e Buenos Aires, per poi fare ritorno a Napoli nel novembre 1868, trainata della pirofregata Regina. La vecchia Ercole fu poi varie volte riarmata e disarmata: nel 1872 fu impiegata per trasportare a Lampedusa i condannati al confino nell'isola[4]. Suo ultimo ruolo, dal 1874 al 1875, fu quello di nave ammiraglia del I Dipartimento[4]. Radiata il 10 aprile (o 31 marzo) 1875[4], venne avviata alla demolizione.

Nel corso dei trentun anni di servizio si erano susseguiti al comando della nave 6 comandanti borbonici, uno sardo e cinque italiani

 


 

Infrastrutture e pianificazione nella Napoli dell’Ottocento

 

Naples in the middle of nineteenth century is a “construction site” for industrial and residential development at the same of other great towns (London, Paris, Wien) that realized interventions in Europe.During the reign of Ferdinando II di Borbone (1830-59) were realized a project that previded for an industrial quarter at east and a residential part in the western city, and in the territory constructions provincial roads, bridge connection (Garigliano and Calore rivers), infrastructures and railways (Napoli-Portici, 1839).After “Unit of Italy” (1861) same architects and engineers (Luigi Giura, Errico Alvino, Antonio Francesconi, Gaetano Genovese and others) that work in preceding regime will continue to project of construction city stand guarantor for the operational continuity.In the second half of nineteenth century there will be many problems for to realize projects and planning until 1884 when begin special “Risanamento plan” after epidemic cholera problem.In the 1887 the Municipality of Naples define a particulary plan of a “Industrial District” that will be not realized in the same area that in the present wait for solution one more time.

 


 

La toponomastica di Napoli dai Borbone ai Savoia

 

La toponomastica napoletana ai dati degli studiosi e dei revisionisti storici e dal popolo meridionalista,risulta che dal 1861 ad oggi ha subito innumerevoli cambiamenti o sostituzioni di nomi e dediche.Basti pensare che le principali strade e piazze furono intitolate ai " falsi eroi risorgimentali " ,nomi attribuiti dai Savoia.Loro carnefici delle martoriate genti del sud e della fine del loro regno ( REGNO DELLE DUE SICILIE).Tra le tante denominazioni troviamo corso e piazza Garibaldi al tempo piazza 3 ottobre 1839 (data dell´inaugurazione della prima rete ferroviaria italiana voluta da re Ferdinando II),e denominata popolarmente piazza alla ferrovia.Piazza Cavour prima nota come Largo delle Pigne , poi via dei Mille prima Corso Gianbattista Basile e Piazza dei Martiri chiamata dai Borbone Piazza della Pace. Poi al corso  V.emanuele che tolse il titolo di corso Maria Teresa in onore della moglie di Ferdinando II di Borbone ed oltre che le tante vie , cupe e gradini a lui dedicati. A Cialdini quest'ultimo sanguinario luogotenente piemontese, protagonista di numerosi eccidi al Sud durante l’opera di unificazione del Paese,vi troviamo all’interno della Camera di Commercio in piazza Bovio il suo busto esposto.Notiamo ancora piazza principe Umberto  e la Galeria Umberto I.L´emiciclo dell´odierna piazza Dante portava invece il nome di Foro Carolino voluto dal sovrano Carlo III, incorniciato da 26 statue ancora presenti sulle ali del monumento celebrativo oggi conosciuto come Convitto Nazionale Vittorio Emanuele.Ricordiamo piazza San ferdinando con la statua eretta in onore di Ferdinando II oggi piazza trieste e trento.Anche la bellissima e famosissima p. del Plebiscito un tempo Largo di palazzo. Via Toledo Fu voluta dal viceré Pedro Álvarez de Toledo nel 1536 su progetto degli architetti regi Ferdinando Manlio e Giovanni Benincasa. Dal 18 ottobre del 1870 al 1980 la strada si è chiamata Via Roma in onore della neocapitale del Regno d'Italia. Fu il Sindaco Paolo Emilio Imbriani a deliberarlo, decisione impopolare che suscitò numerose reazioni contrarie, a cominciare da quella dello storico Bartolommeo Capasso che, nonostante fosse dichiaratamente a favore dell’unità d’Italia, definì la scelta «una denominazione che non ha guari, disconoscendosi la storia si è voluta in altro mutare». In città si diffuse una strofetta che recitava: «Nu' ritto antico, e 'o proverbio se noma, rice: tutte 'e vie menano a Roma; Imbriani, 'a toja è molto diversa, non mena a Roma ma mena a Aversa» (ad Aversa si trovava infatti la prima struttura manicomiale in Italia, la Real Casa dei matti aperta nel 1813).Insomma, nelle oltre 3822 vie inserite nello stradario del Comune di Napoli tante, forse troppe strade inneggiano a personaggi risorgimentali, oggi visti con occhi diversi. Una modifica toponomastica con il semplice scopo di cancellare l' identita' e la storia di un intero popolo,di una citta'.

 

 

Piazza Garibaldi = piazza 3 ottobre 1839

 

piazza Cavour = Largo delle Pigne

 

via dei Mille =  Corso Gianbattista Basile

 

Piazza dei Martiri = Piazza della Pace

 

corso  V.emanuele = corso Maria Teresa

 

piazza Dante = Foro Carolino

 

piazza Trieste e Trento = piazza San ferdinando

 

Piazza del Plebiscito = Largo di palazzo

 

 via Toledo = via Roma


 

Catasto onciario

 

Il Catasto onciario, precursore degli odierni catasti, rappresenta l'attuazione pratica delle norme dettate da re Carlo di Borbone nella prima metà del XVIII secolo per un riordino fiscale del regno di Napoli, progettato e diretto da Bernardo Tanucci. Nonostante fosse un catasto descrittivo, poiché non prevedeva la rappresentazione geometrica dei luoghi, fu uno strumento teso ad eliminare i privilegi goduti dalle classi più abbienti che facevano gravare i tributi fiscali sempre sulle classi più umili e di fatto rappresenta uno dei più brillanti esempi del tempo di ingegneria finanziaria e di ripartizione proporzionale del peso fiscale.

Il catasto era basato su un sistema di duplice tassazione, che prevedeva sia una imposizione di tipo reale cioè sui beni e sia personale cioè sulla capitazione o testatico e sulle attività dei contribuenti e dei loro nuclei familiari.

Dall'imposizione catastale per antico privilegio era esentata la città di Napoli. Si chiamò Onciario perché la valutazione dei patrimoni sia immobiliari che da bestiame o finanziari (per es. da censi attivi), veniva stimato in base all'unità monetaria teorica di riferimento, l'oncia, corrispondente a sei ducati. Era anche detta Oncia di carlini tre, in quanto ogni tre carlini di rendita, capitalizzati al tasso di interesse fissato al 5% (solo per il bestiame era fissato al 10%), equivalevano a 60 carlini, pari a sei ducati e quindi 1 Oncia di capitale o patrimonio. Veniva così introdotta anche una distinzione tra unità monetarie di riferimento per la valutazione delle rendite, adottando le valute correnti del grano, il carlino e il ducato, e per i patrimoni usando delle unità monetarie di conto come il tarì e l'oncia. È chiaro come un meccanismo volutamente semplice poteva assicurare nelle intenzioni, un prelievo fiscale generalizzato ed accertamenti molto rapidi.

 

Per il calcolo delle imposte le persone erano distinti in diverse categorie. Una prima distinzione era effettuata fra cittadini e forestieri: i primi formavano i "fuochi" (ovvero le famiglie) dell'Università; i secondi erano solamente iscritti nell'Onciario o perché vi possedevano beni o perché vi esercitavano un'attività.

 

Una seconda distinzione era fra i laici e gli ecclesiastici, includendo in questi ultimi tutte le istituzioni religiose collaterali.

 

In sintesi erano sette le possibili categorie di contribuenti:

 

cittadini abitanti e non abitanti

vedove e vergini

ecclesiastici secolari cittadini

chiese, monasteri e luoghi pii nell'università

forestieri abitanti laici

chiese, luoghi pii e monasteri forestieri

forestieri non abitanti laici

 

Erano tuttavia previste numerose forme di esenzione come per i beni feudali sottoposti alle sole imposizioni dell'Adoa e del Relevio, per cui i baroni potevano essere tassati solo per i beni allodiali cioè in piena proprietà (sui quali erano tenuti a pagare la tassa di bonatenenza qualora posti al di fuori del comune di residenza), con conseguenti numerosi tentativi di pretendere di far passare tutti i loro beni come feudali; così come i beni ecclesiastici per valori inferiori ad alcune soglie stabilite nelle norme concordatarie che potevano variare a seconda delle località; non vi era tassazione "sulla testa" per le professioni ritenute arti liberali come i giudici o i notai, o per i nobili e "civili viventi" e i benestanti che non svolgevano alcuna attività lavorativa, venendo tassati solo coloro che esercitavano un lavoro manuale con tre fasce di tassazione, oppure non erano tassati gli ultrasessagenari o i capi di famiglie numerose, e pertanto anche se nelle intenzioni la riforma voleva comprendere tutti indistintamente, in realtà il prelievo non fu così generalizzato ed uniforme.

I Comuni erano considerati un aggregato di persone e di beni di varie specie e nature. Le imposte erano così calcolate a seconda delle varie qualità delle persone e dei beni.

Le 4 fasi del procedimento per la formazione dell'onciario a cui erano tenute le singole comunità erano:

 

gli atti preliminari mediante i quali in particolare si nominavano i cittadini deputati in rappresentanza dell'università divisi per classi sociali (normalmente de civilibus, de mediocribus e de inferioribus) e gli estimatori interni ed esterni e si stabilivano i prezzi delle vettovaglie,

le rivele mediante le quali ogni cittadino rivelava la composizione dei propri nuclei familiari e le proprie sostanze,

l'apprezzo mediante il quale i deputati al catasto ( 4 esperti agrimensori, di cui 2 locali e 2 forestieri) valutavano tutti gli immobili della comunità con le relative rendite, ad esclusione della casa di abitazione della famiglia che godeva di esenzione; di qui una commissione formata da rappresentanti del comune e dagli estimatori verificavano la veridicità delle rivele anche con i precedenti catasti locali ed altri numerosi documenti (stati delle anime, affitti di gabelle, documenti relativi al possesso di bestiame, ecc.),

l'onciario, con cui venivano liquidate le singole posizioni mediante il calcolo dei rispettivi patrimoni mediante la somma delle once da industria (cioè da lavoro) e once dai beni e il totale espresso, appunto, in once e tarì.

Il tutto poi veniva sintetizzato in una tavola sinottica riassuntiva generale del catasto, la Collettiva o Mappa generale, con l'elenco riepilogativo delle once di tutti i fuochi tassati e la somma totale delle once relative all'Università.

A conclusione dell'onciario vi è poi lo stato discusso cioè il bilancio della località, e "rimesso" cioè validato dalla Regia Camera della Sommaria, che evidenzia le uscite e le entrate, tra le quali vi erano normalmente compresi i proventi della tassazione per fuochi, con l'entità del disavanzo da finanziare con il prelievo mediante la redistribuzione sulle once.

 

I lavori per attuare questa grande riforma tributaria cominciarono con l'emanazione di Prammatiche reali note come Forma censualis et capitationibus sive de catastis dal 1741 sino al 1748 che inizialmente disponevano l'obbligo della confezione del catasto entro pochi mesi e in realtà ben poche erano le università che si erano messe in regola entro il 1743, ed occorsero un enorme impegno amministrativo e circa 15 anni per giungere in tutto il Regno alla compilazione delle liste dei soggetti e dei relativi beni.

Anche se nelle intenzioni erano esaltati i principi di uniformità, chiarezza e incisività del nuovo strumento fiscale, la laboriosità derivante dalla necessità, prescritta nell'ultima delle prammatiche De catastis, di aggiornare annualmente tutte le liste degli onciari in ogni componente reddituale, oltre alle resistenze delle classi più abbienti, costituì il limite principale al suo utilizzo negli anni seguenti, causandone il progressivo accantonamento in tutte le università del Regno, che almeno dal 1770, una volta constatatone il fallimento sostanziale dallo stesso potere centrale, tornarono ad esercitare in larghissima parte la fiscalità locale utilizzando i catasti locali o mediante il sistema delle gabelle.

Il regno di Napoli poi regno delle Due Sicilie rimarrà pertanto privo di un valido strumento catastale uniforme fino all'arrivo dei Francesi che tra primo e secondo decennio del XIX secolo daranno al regno un nuovo catasto, seppur ancora solo descrittivo, sotto il nome di Catasto Napoleonico o Provvisorio, basato sulle denunce spontanee dei proprietari, che manterrà la sua validità fino alla prima metà del secolo XX quando verrà sostituito definitivamente dal nuovo catasto su scala nazionale.

La consultazione dell'Onciario, conservato in originale per tutte le università del Regno presso la Regia Camera della Sommaria poi nell'Archivio di Stato di Napoli, oltre che in copia in alcuni pochi archivi comunali, è ancora oggi, pur con tutti i suoi limiti e omissioni, una fonte preziosa di informazioni sul periodo.

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Catasto_onciario

 

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Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania

 

da: il Sole24ore,  30 giugno 2012 - https://st.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-06-30/eurobond-fecero-unita-italia-190357.shtml?uuid=AbDwao0F

 

Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia.

Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. 

Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873.

Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio.

La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). 

Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali.

Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla.

Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.